La selezione della settimana: #1 Banca d’Italia: la crescita dell’occupazione nel secondo bimestre del 2023 è sostenuta e conferma l’andamento dei mesi di gennaio e febbraio. #2 VoxEU: la proposta della Commissione europea sulla regola del benchmark sta ottenendo ampi consensi sebbene si intravedono alcuni punti oscuri che vanno individuati ed affrontati. #3 Commissione europea: nell’ambito del Semestre europeo 2023 l’Analisi approfondita della situazione italiana ha evidenziato la persistenza di condizioni di squilibrio nonostante i miglioramenti degli ultimi due anni. #4 IMF: la globalizzazione è in crisi e i grandi blocchi economici stanno ricorrendo nuovamente alla politica industriale: un editoriale si interroga se i paesi in via di sviluppo debbano seguire la stessa strada.
Tra marzo e aprile 2023 sono stati creati in Italia 100mila posti di lavoro al netto delle cessazioni, un valore in linea con il bimestre precedente. La Nota congiunta sul mercato del lavoro di Banca d’Italia, Anpal e Ministero del lavoro, ha evidenziato una ripresa del mercato del lavoro sostenuta, caratterizzata da valori medi superiori a quelli dello stesso periodo nel 2019 e nel 2022. La domanda di lavoro è stata trainata dai servizi, in particolare da quelli turistici i quali, da soli, hanno creato 40mila posti di lavoro. Crescono in linea con il bimestre precedente i settori dell’industria in senso stretto e delle costruzioni. (Leggi)
La proposta di riforma della governance economica europea è stata formulata per semplificare le regole, puntando su parametro unico di riferimento della spesa, ma di questo paramento non si è ancora esplorato il lato oscuro. In un articolo intitolato “The far side of the EU’s expenditure benchmark” apparso su VoxEu, M. Larch e J. Malzubris contribuiscono al dibattito in corso ritenendo eccessivo l’entusiasmo che ha accolto la nuova formulazione della regola in quanto non sono stati ancora esplorati a fondo tutti gli aspetti. Non affrontare appieno la questione potrebbe contribuire a indebolire la riforma. (Leggi)
L’Italia continua a soffrire di squilibri macroeconomici che, sebbene negli ultimi anni vi siano stati alcuni miglioramenti, restano ancora significativi senza che vi siano aspettative di miglioramento nel breve periodo. La Commissione europea, nell’ambito della Comunicazione “European Semester – 2023 Spring Package – In-depth review for Italy” ha evidenziato come la bassa produttività del lavoro sia la principale causa della bassa crescita economica degli ultimi 20 anni. La crescita non soddisfacente ha impedito il miglioramento dell’indebitamento pubblico, ha limitato le opportunità occupazionali e ha avuto effetti negativi sui bilanci delle banche. (Leggi)
Tra il 1990 e il 2000 il panorama del commercio internazionale, i paesi emergenti e quelli in via di transizione avevano aperto i loro mercati e avevano abbracciato la globalizzazione ma a distanza di qualche decennio il panorama geopolitico è mutato profondamente. In un editoriale pubblicato su Finance & Developments del FMI, intitolato “Should developing economies follow the United States and China by building national champions?” D. Irwin si interroga sul futuro della globalizzazione. La frammentazione dell’economia globale e le violazioni del commercio internazionale hanno riportato in auge la politica industriale, i sussidi e rle estrizioni alle importazioni. (Leggi)
OCCUPAZIONE SOSTENUTA DAL SETTORE TURISTICO
Secondo i dati delle Comunicazioni obbligatorie al Ministero del Lavoro e delle politiche social, nel primo quadrimestre 2023 l’occupazione in Italia è cresciuta a un tasso sostenuto, superiore rispetto al quadrimestre corrispondente del 2019 prima della pandemia e del 2022 in piena ripresa dopo gli allentamenti delle restrizioni sanitarie. Al netto delle cessazioni sono stati creati 215mila posti di lavoro di cui il 75% a tempo indeterminato (nel bimestre marzo aprile il 70%) mentre il ruolo dell’apprendistato è irrilevante. Il 33% dei posti di lavoro netti è stato creato nel settore turismo – da soli i servizi hanno contribuito per il 61%, seguiti dall’industria in senso stretto 17% dal commercio 16% e dalle costruzioni il 7%.
In corrispondenza di questa tendenza, il tasso di licenziamento è in costante diminuzione mentre il tasso di dimissione resta a livelli più elevati rispetto alla crisi sanitaria ed è dovuto soprattutto al passaggio da un lavoro a un altro. Secondo un’analisi congiunta dalla Banca d’Italia e del Ministero del lavoro, l’aumento delle dimissioni, riscontrate nel corso del 2021 sono dovute sia a fattori legati alla domanda sia all’offerta di lavoro. Dal lato dell’offerta i lavoratori possono non essere più disponibili a lavorare alle condizioni prevalenti mentre dal lato della domanda, la ripresa incentiva i lavoratori a lasciare il posto di lavoro per un altro. Le dimissioni, infine, sono associate maggiormente al lavoro a tempo indeterminato, concentrata in quei settori che hanno beneficiato di più della ripresa del 2021.
Con la ripartenza del settore turistico è aumentato il ricorso al lavoro a tempo determinato. Tra marzo e aprile i posti di lavoro a tempo determinato sono aumentati di 35mila unità, più del doppio rispetto al bimestre precedente quando ne erano stati registrati 15mila in più. Il 71% dei posti di lavoro netti sono stati creati al Centro Nord, il restante al Sud e nelle Isole. Disaggregando per genere, il 43,7% sono destinati a donne e il 55,3% a uomini. L’incremento del tasso di partecipazione tra gennaio e febbraio 2023 di 0,3 punti percentuali rispetto al bimestre precedente ha frenato la diminuzione del tasso di disoccupazione statistico, calcolato dall’ISTAT e di quello amministrativo, desunto dalle dalle Dichiarazioni di immediata disponibilità al lavoro (DID) il cui saldo netto per il primo bimestre 2023 è di 11.290 unità, di cui il 57,2% è rappresentato da donne.
Banca d’Italia – Il mercato del lavoro: dati e analisi – Maggio 2023
https://www.bancaditalia.it/media/notizia/il-mercato-del-lavoro-dati-e-analisi-maggio-2023/
IL LATO OSCURO DEL BENCHMARK
Il benchmark expenditure (regola della spesa) è considerato dai sostenitori della proposta di riforma della governance economica europea il “wanderlust” delle misure fiscali. A sostegno di questo entusiasmo vi sono i vantaggi che il ricorso a un solo indicatore comporta: ridurre la ridondanza del sistema attuale, mitigare il rumore implicito delle variabili non osservate e assicurare una bussola affidabile lungo il percorso nella riduzione del debito pubblico. Nonostante la proposta di un unica regola abbia ricevuto un’accoglienza favorevole dalla gran parte degli osservatoti, M. Larch e J. Malzubris evidenziano alcune questioni, in linea con altre posizioni critiche, in particolare la non completa conoscenza di tutti gli aspetti che indebolirebbero riforma.
I vantaggi sono rilavanti: la finanza pubblica si collocherà su un percorso sostenibile finché la spesa pubblica non supererà il livello aggregato nel lungo periodo che è basato sul prodotto potenziale, una grandezza più facilmente misurabile dell’Output gap. In secondo luogo i parametri di riferimento della spesa sono in gran parte controllati dai governi nazionali per cui ogni deviazione dal percorso di spesa stabilito sarà di loro competenza. In terzo luogo, legare la spesa pubblica al ciclo economico ne limita l’ampiezza, in quanto viene assorbita dalla posizione fiscale di un paese che durante una fase di espansione aumenta e durante una fase negativa, diminuisce.
La principale obiezione mossa dagli autori riguarda il livello a cui sarebbe legata la spesa pubblica alla crescita economica: nell’ambito del parametro di riferimento della spesa è necessario stabilire il giusto livello di spesa rispetto alle entrate, in quanto la spesa pubblica può essere insostenibile anche se cresce a un tasso uguale o inferiore al reddito potenziale. In Francia, ad esempio, la spesa reale è cresciuta tra il 1997 e il 2023 in linea con le entrate. Durante le fase di recessione, in corrispondenza della contrazione delle entrate, la spesa pubblica è rimasta invariata, ma dopo la ripresa le entrate non sono ritornate ai livelli precedenti per cui i politici francesi si sono trovati con crescenti deficit di bilancio e crescenti livelli di debito pubblico.
VoxEU – The far side of the EU’s expenditure benchmark
https://cepr.org/voxeu/columns/far-side-eus-expenditure-benchmark
I MALI CRONICI DELL’ITALIA
La Commissione europea nell’ambito del Semestre europeo 2022 aveva individuato per il nostro paese un eccessivo squilibrio macroeconomico, scenario confermato, con qualche distinguo, dall’In-depth review for Italy del Semestre 2023. Debito pubblico elevato, bassa produttività del lavoro in un contesto di fragilità del mercato del lavoro e alcune debolezze del mercato finanziario comportanti rischi anche oltre confine. Il livello del debito pubblico resta ancora elevato e rappresenta la principale vulnerabilità dell’intera economia. A fine 2022 il debito pubblico italiano aveva una vita residua di circa 7 anni contro la media europea di 8 anni, nonostante il graduale incremento avvenuto nel periodo 2014-2021. L’orizzonte temporale più basso ha evitato un eccessivo incremento del servizio del debito nell’ultimo anno, tuttavia il costo medio del debito pubblico è aumentato significativamente nel corso del 2022 ed è previsto restare a lungo elevato.
Il rapporto debito su PIL nel 2022 è diminuito ma continua a restare su livelli elevati anche a causa delle politiche economiche intraprese nell’ultimo biennio: i rilevanti livelli di deficit del biennio 2021-2022 hanno impattato sul rapporto debito/PIL e sono stati determinati sia dall’inatteso utilizzo dei crediti di imposta per il miglioramento energetico degli edifici sia dalle nuove regole di contabilizzazione statistica adottate nel 2022. Il rapporto debito/PIL ha raggiunto il suo massimo nel 2020 quando ha raggiunto il 154,9% del PIL. In seguito alla ripresa del 2021 e del 2022, in quest’ultimo anno ha raggiunto il 144,4% del PIL mentre grazie alla crescita economica favorevole, al miglioramento del saldo primario e al ritiro di alcune misure di sostegno viene stimato un ulteriore miglioramento del rapporto al 140% del PIL nel 2024.
La debole produttività del lavoro ha frenato la crescita economica italiana per quasi 20 anni: dal 2001 al 2019 la produttività per ora lavorata è stata stagnante e il PIL per occupato è diminuito mentre nello stesso periodo nell’Unione europea entrambi gli indicatori sono aumentati in media di 20 p.p. Questa debolezza è determinata dalle dimensioni relativamente piccole delle imprese che non beneficiano delle economie di scala he anno bassi investimenti nelle immobilizzazioni immateriali. Riguardo alle fragilità del settore finanziario si segnala il miglioramento delle condizioni del settore bancario dove il tasso dei crediti deteriorati lordi è diminuito al 2,9% nel terzo trimestre 2022 dal 16,5% del 2014, sebbene per alcune istituzioni secondarie e nelle Regioni meridionali resti ancora troppo elevato.
Commissione europea – European Semester – 2023 Spring Package – In-depth review for Italy
IL FUTURO DELLA GLOBALIZZAZIONE
La globalizzazione è in crisi e il panorama geopolitico è mutato negli ultimi 15 anni. Alla frammentazione dell’economie globale i Paesi hanno risposto con interventi sul commercio internazionale sotto forma di politiche industriali e di sussidi, con restrizioni alle importazioni giustificate dai timori per la sicurezza nazionale e ambientale. il controllo delle esportazioni è aumentato allo scopo di punire i rivali geopolitici ed assicurare l’approvvigionamento interno. D. Irwin si chiede in che modo Paesi in via di sviluppo dovrebbero orientarsi in questo nuovo ambiente, alla luce delle esperienze degli anni passati in cui avevano aperto i mercati e affrontato la competizione globale. L’ingresso dei Paesi a basso reddito nell’economia globale fu accompagnato negli anni ‘50 dal dibattito sulla necessita della sostituzione delle importazioni.
Per ridurre la dipendenza dalle importazioni dai Paesi ricchi che avrebbero contribuito ad depauperare i Paesi più arretrati, fu proposta come strategia ottimale di sviluppo industriale la sostituzione delle importazioni, in cui i beni importati sarebbero stati sostituiti da beni di consumo prodotti nel mercato interno. Le politiche di sostituzione delle importazioni avevano la controindicazione di incrementare la dipendenza dall’estero non più di beni di consumo ma di beni capitali e fu messa in discussione nel corso degli anni successivi e accantonata. Il dibattito sulla politica industriale è ancora vivo ma anche i successi sono stati messi in discussione come nel caso della Corea del Sud, negli anni ‘70 oppure il caso dell’Argentina con il suo tentativo costoso di produrre tecnologia avanzata nella Terra del fuoco.
Nonostante i guadagni della politica industriale non siano evidenti, Cina e Stati Uniti si sono scoperti entrambi fautori: la Cina ha adottato una piano strategico basata sulla produzione nazionale (made in China 2025), in cui sono sussidiati alcuni settori chiave. Gli USA stanno proteggendo i settori dell’acciaio e dell’alluminio e più di recente con il CHIPs Act stanno tentando di riportare la produzione di semiconduttori nei confini domestici. Per i Paesi in via di sviluppo seguire la spesa strada intrapresa dalle grandi economie potrebbe rivelarsi rischioso in quanto, a fronte di costi elevati e di benefici incerti, si innescherebbe una corsa al protezionismo che danneggerebbe le esportazioni a scapito delle importazioni strategiche. Le politiche protezionistiche sono un lusso, dai benefici irrisori, che i Paesi emergenti non si possono permettere anche per la loro precaria condizione fiscale. Comportarsi analogamente significherebbe compromettere la crescita ottenuta grazie all’ingresso nel mercato globale.
IMF – Should developing economies follow the United States and China by building national champions?