Un articolo di Mauro Marè e Nicola Rossi – Corriere della Sera Economia – 7 febbraio 2020

Un dibattito che dura da 40 anni

Si torna a parlare con forza della necessità di una riforma dell’Irpef, come, del resto, è avvenuto periodicamente negli ultimi 40 anni. Le ragioni sono fondate e sono molte ma è opportuno rendersi conto che la riforma dovrebbe essere generale e complessiva ed investire l’intero sistema fiscale e non solo l’Irpef. Ma procediamo con ordine. Si è sempre sostenuto che la riforma fiscale del 1973 fosse nata già vecchia, perché il mito dell’imposta personale capace di garantire l’unicità di trattamento di tutti i redditi (comprehensive income tax) — molto attraente in teoria — finì per risultare, fin dall’inizio, di difficile applicazione. Alcuni redditi, per tante e svariate ragioni, ne furono esclusi, altri furono oggetto di trattamenti di favore o tassati in modo cedolare. Si pensi ai redditi agricoli, a quelli da fabbricati, o ai redditi da capitale (i diversi tipi di redditi finanziari, da plusvalenze, da partecipazione). E si pensi anche ai redditi di impresa, data la loro dimensione e il tipo di contabilità o, infine, i redditi diversi. E l’elenco potrebbe continuare e, anzi, dovrebbe essere regolarmente aggiornato perché sotto questo profilo la fantasia del legislatore tributario sembra essere inesauribile. Per cui un’imposta personale unica in realtà non c’è mai stata. Piuttosto diverse imposte personali — diverse per la tipologia di reddito e per le capacità differenziate di valutazione e di accertamento dello stesso da parte dell’amministrazione tributaria — hanno finito nel tempo per convivere. E fin dal suo avvio, l’Irpef è stata caratterizzato dalla previsione di molte spese fiscali (tax expenditures o, come si dice da qualche tempo, bonus) che anzi, nel corso degli ultimi 30 anni, si sono moltiplicate e hanno finito per riguardare un po’ tutte le imposte e non solo l’Irpef. Così come, fin dal suo avvio, si tenne l’Irpef accuratamente separata dal suo «negativo», e cioè dall’assistenza, generando così un sistema di imposte e benefici scoordinato e incoerente in cui esistono molte più aliquote reali o effettive rispetto a quelle nominali, con salti e picchi notevoli in relazione a diversi valori dei redditi imponibili, oltre che al passaggio da scaglione a scaglione.

L’iniquità orizzontale

Ma c’è di più. I lavori che tra il 1964 e il 1973 caratterizzarono il processo di riforma tributaria misero con forza in evidenza che un’imposta di massa come quella che si voleva adottare avrebbe richiesto capacità di accertamento da parte dell’amministrazione omogenee e uniformi, cosa che non sembrava allora possibile e che avrebbe richiesto una riforma profonda e un significativo potenziamento dell’amministrazione tributaria. Il problema è ancora lontano dall’essere risolto anche se la tecnologia sembra poterci imporre oggi quei passi avanti che la volontà politica ha spesso cercato di evitare di fare. In questo contesto, l’iniquità orizzontale — il trattamento diverso di contribuenti con lo stesso livello di reddito ma derivante da fonti diverse o, per fare un secondo esempio, il trattamento diverso di famiglie con livelli di reddito simili una volta che si tenga adeguatamente conto della composizione familiare — è ormai una caratteristica strutturale del sistema, spesso e volentieri più grave e più odiosa della stessa iniquità verticale (e cioè il trattamento per alcuni non sufficientemente diversificato fra contribuenti con diversi livelli di reddito).

Una riforma non più rinviabile

In breve, una profonda riforma dell’Irpef appare non più rinviabile. Ma fermarsi ad essa sarebbe un grave errore. Come si è visto, i limiti del sistema derivano in larga misura dalla mancanza di un disegno generale che sia capace di trattare equamente situazioni diverse non solo sotto il profilo del livello del reddito imponibile. La mano del prelievo non sa cosa fa la mano della spesa, e all’interno della prima le diverse dita — le diverse forme di prelievo — si muovono in maniera scoordinata. Per gli umani si parla, in questo caso, di disturbi del sistema nervoso centrale. Tutto lascia supporre che il bilancio dello Stato sia affetto dalla medesima patologia. La mancanza di coerenza fra voci diverse di entrata è tanto nota quanto spesso non solo tollerata ma addirittura favorita. Non diversamente accade per l’assenza di coordinamento fra versante del prelievo e versante della spesa che ha conseguenze altrettanto serie. La tradizione italiana di finanza pubblica ha sempre pensato alle imposte essenzialmente come al prezzo dei servizi pubblici. Il che implica, fra l’altro, che per valutare l’effetto redistributivo non si debba guardare solo alla distribuzione del carico tributario ma anche agli effetti della spesa pubblica. Effetti che ad oggi vengono ancora largamente trascurati e ignorati. La corrispondenza tra imposte e spesa pubblica dovrebbe, al contrario, essere stringente e considerata come un punto essenziale per la valutazione della politica fiscale e dell’azione redistributiva dell’operatore pubblico.

Obiettivi

Nel corso degli ultimi decenni si è invece imposta la fiducia, eccessiva e per noi mal riposta, che la modifica della distribuzione dei redditi che emerge dall’economia di mercato si debba fare essenzialmente, se non esclusivamente, con il sistema dei tributi che, dovendo avere molti altri obiettivi (ad esempio, di gestione della congiuntura o macroeconomici in senso lato), finisce per sovrapporre gli uni agli altri e per perdersi per strada. La modifica della distribuzione dei redditi di mercato è obiettivo molto difficile da conseguire. Da perseguire, certo, ma anche, se non soprattutto, con la spesa pubblica o con altre forme di intervento pubblico, diverse dal sistema tributario. Essendo realisticamente consapevoli che la fiducia che poi si riesca davvero a realizzarla in economie sempre più complesse e digitali vacilla sempre più. Assegnare al sistema tributario finalità pressoché esclusive di redistribuzione lo espone a incoerenze drammatiche e produce effetti perversi e indesiderati che l’attuale Irpef pienamente testimonia. Politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza vanno dunque tentate, purché adeguatamente definite e costruite con gli strumenti dell’intero bilancio pubblico.