Spesa crescente, promesse generose, previsioni ottimistiche, cuneo fiscale elevato. Così il sistema non regge: serve una decontribuzione strutturale per i più giovani
Il Foglio Quotidiano 29 gennaio 2020 di Fabio Pammolli
I segretari di Cgil, Uil e Cisl (Landini, Barbagallo e Furlan) propongono una riforma delle pensioni che consenta di uscire a 62 anni e con 20 di contributi, una controriforma che costerebbe 20 miliardi (LaPresse)
Appuntamento immancabile, consuetudine malata, si è riacceso il festival delle pensioni. Colpisce il contrasto, stridente, tra l’inesorabile persistenza delle questioni in gioco e quella che sembra un’irrefrenabile inclinazione del legislatore per decisioni di breve respiro, passi indietro o, ben che vada, di lato.
Anziché immergersi nelle acque del rito pagano che già celebra le proposte del momento, può valer la pena soffermarsi su alcuni tratti della, scarna, struttura del problema. La questione previdenziale e la necessità di equilibrare contributi attuariali ed erogazioni future alimentarono il dibattito già negli anni Ottanta, sino alla riforma Amato del 1992 e alla sua prosecuzione con la “Dini”. La scelta del legislatore fu quella di un finanziamento a ripartizione e di una lunga transizione verso il metodo contributivo per il calcolo dell’assegno pensionistico. Per farla breve, di volta in volta i contributi obbligatori costruiscono la pensione di domani ma sono impiegati per liquidare le prestazioni ai pensionati di oggi. Il sistema si tiene in equilibrio se i contributi contabilizzati coprono le erogazioni effettive. Dalla prospettiva di chi lavora, una quota della remunerazione viene differita e consegnata all’Inps, in cambio di una promessa pensionistica. La credibilità della promessa si regge, a livello complessivo del paese, sulla crescita della produttività, della forza lavoro e del monte dei salari reali. Altrimenti, lo stato dovrà ripianare i conti con un disavanzo, alzare le aliquote di contribuzione per chi lavora, o ridurre le prestazioni.
Negli anni, il confronto politico e tra le parti sociali si è concentrato sulle disparità di trattamento indotte dalla transizione al contributivo, sui requisiti anagrafici e di contribuzione, sulle regole di calcolo e di indicizzazione, sull’aggiornamento dei coefficienti di trasformazione. Con molta meno continuità si è discusso, invece, del nesso che lega promesse pensionistiche e crescita economica. Oggi sappiamo che, nel 1995, l’Italia era già entrata in una fase di ristagno della crescita e della produttività da cui non sarebbe più uscita, sino ai giorni nostri. Una delle chiavi di volta del nuovo edificio delle pensioni, la prospettiva di una crescita stabile e duratura, aveva già iniziato a cedere. Le proiezioni ufficiali, però, non videro la portata di ciò che sarebbe accaduto e ipotizzarono per il paese livelli di occupazione e di crescita che, nei fatti, mai si materializzarono (è interessante rileggere Camera dei Deputati, Servizio Bilancio dello Stato, 1996: “Gli effetti finanziari di medio-lungo periodo della riforma del sistema pensionistico obbligatorio”).
La riforma, insomma, si basò su ipotesi di consistenza del monte contributivo generato dalla platea degli occupati rivelatesi eccessivamente ottimistiche. Anche per questa ragione, e anche al netto delle concessioni della transizione e dell’ulteriore allungamento dell’aspettativa di vita, le promesse pensionistiche furono, sin da allora, troppo generose. Per mantenerle, è stato poi necessario tenere ben alto il cuneo che separa costo del lavoro per le imprese e salari netti per gli occupati. Così, progressivamente, si è innescata una spirale negativa per la crescita, ci si è allontanati da condizioni di equità attuariale dei benefici pensionistici, non si è riusciti nell’intento di limitare l’incidenza della spesa sul pil e sul totale della spesa pubblica.
Anche le correzioni di rotta hanno interessato unicamente il funzionamento del pilastro a ripartizione. Così, il carico fiscale e contributivo sul lavoro dipendente è rimasto tra i più alti dell’area Ocse (47,88 per cento, in media, per un single nel 2018), mentre gli squilibri della ripartizione sono stati corretti in tutta fretta e sempre in condizioni di emergenza finanziaria, con il risultato di alzare il costo politico di ogni intervento rivolto al futuro e di rendere drammatica la tensione tra esigenze di risanamento e rispetto delle promesse del passato.
Oggi i livelli di occupazione e la competitività ristagnano, e pare davvero difficile ipotizzare che occupazione e crescita siano variabili indipendenti rispetto al carico fiscale e contributivo. Ciascun occupato contribuisce alla spesa per il welfare anziano (pensioni, sanità, assistenza) con un importo pari al 64 per cento del PIL pro capite. Il valore corrispondente per la Germania è di circa 20 punti percentuali più basso. Quelle di Hans Werner Sinn e di Germania 2010, insomma, furono “prediche utili”, capaci d’ispirare la politica e il confronto con le parti sociali (cf. H.W. Sinn Can Germany be saved? The malaise of the world’s first welfare state, pubblicato per Mit Press nel 2007, quattro anni dopo la prima versione in tedesco).
Si può sempre chiedere a gran voce una crescita miracolosa della produttività e dei tassi di occupazione, ma i miracoli rimangono altamente improbabili, specie quando li si invoca proprio mentre si fa di tutto per scacciarli. La verità è che, a maggior ragione per coloro che sul mercato del lavoro devono ancora entrare, l’esclusività forzosa della contribuzione al primo pilastro pesa come un macigno. Un macigno che condiziona le libertà e i bisogni individuali nella distribuzione dei risparmi e dei consumi lungo il ciclo di vita, soffoca l’occupazione qualificata, riduce l’accumulazione di capitale, inflaziona i prezzi relativi deprimendo la competitività delle imprese rispetto ai concorrenti esteri. Del tutto legittimamente, i contributi obbligatori non sono più percepiti come retribuzione differita, ma come “pura imposta”.
Negli ultimi anni, la politica ha intrapreso la via delle decontribuzioni a tempo, dei bonus, dei tagli temporanei al cuneo fiscale e, con Quota 100 e ora Quota 102, quella dell’abbassamento delle soglie di pensionamento. Lungi dall’aiutare il lavoro dei giovani, concessioni come queste, pur diverse tra loro, non risolvono il problema delle pensioni e non sono utili per imboccare un sentiero di crescita. Al contrario, esse pregiudicano le già gravi condizioni dell’Italia malato d’Europa, spostano le aliquote teoriche di equilibrio a livelli ancor più elevati, amplificano gli effetti distorsivi sul mercato del lavoro e spaccano, proprio per i giovani, il collegamento tra contributi e prestazioni future, divenuto non credibile, a meno di percorsi di vita lavorativa, tassi impliciti di rendimento e tassi di sostituzione che mai si realizzeranno.
Il carico fiscale e contributivo sul lavoro è tra i più alti dell’area Ocse (48 per cento). Così occupazione, competitività e crescita ristagnano
Bisogna prevedere una riduzione, significativa (almeno1 0 punti) e per tutta la vita lavorativa, dei contributi per le nuove coorti di giovani
Cosa fare? Innanzitutto, rivedere le prestazioni e ripristinare condizioni di maggiore equilibrio attuariale nel pilastro obbligatorio. In secondo luogo, considerare, nelle proiezioni di lungo periodo, scenari meno ottimistici di occupazione e di crescita, per evitare di rinnovare promesse pensionistiche, e sanitarie, non sostenibili e non realistiche. In terzo luogo, rivisitando una proposta che fu formulata da Onorato Castellino ed Elsa Fornero già negli anni Novanta, prevedere una riduzione, significativa e per tutta la vita lavorativa, dell’aliquota contributiva per le nuove coorti di giovani (cf. O. Castellino, E.M. Fornero, La riforma del sistema previdenziale italiano: opzioni e proposte, Il Mulino, 2001).
Lo stato dei conti pubblici e di quelli dell’Inps impongono di applicare una soglia di età sufficientemente bassa, in modo da diluire flussi in ingresso e oneri lungo un arco temporale sufficientemente lungo. L’entità delle coperture necessarie per assicurare la compatibilità finanziaria dell’intervento cambia a seconda della soglia di età e della riduzione dell’aliquota contributiva. Per avere un impatto tangibile e credibile, la riduzione per il lavoro dipendente dovrebbe essere di almeno 10 punti percentuali, meglio se 15, equamente distribuito tra lavoratore e datore di lavoro. Contestualmente, con un allineamento verso il basso dei contributi, andrebbe eliminata ogni disparità contributiva tra forme contrattuali.
Al di là di una possibile, parziale, fiscalizzazione dei contributi per i redditi più bassi, l’idea è che, in media, per i tassi di sostituzione degli attivi interessati dalla decontribuzione, il beneficio associato alla maggiore probabilità di trovare un lavoro, accompagnato dalla liberazione risorse da poter destinare ai fondi pensione del secondo e del terzo pilastro, sia più elevato del maggior importo teorico dell’assegno pensionistico pubblico che si avrebbe senza la decontribuzione. Allo stesso tempo, lo stato vedrebbe ridursi il debito – implicito ma non per questo meno concreto e, anzi, per nulla alleviato dalla stagione di bassi tassi d’interesse nominali – delle proprie obbligazioni pensionistiche.
Certo, da sola, la riduzione del cuneo contributivo non potrà generare crescita. Allo stesso tempo, però, la revisione delle prestazioni promesse e una decontribuzione strutturale al primo pilastro per coloro che oggi sono giovani appaiono due ingredienti necessari per generare nuove opportunità di lavoro. Anche questa volta, la politica sembra guardare altrove.