Per diversi anni, il tema del federalismo è stato tenuto colpevolmente sotto il tappeto del dibattito pubblico. È stato un errore grave, perché unità e solidarietà non possono fondarsi sull’ annullamento delle differenze, sulle inefficienze della spesa storica e sui trasferimenti monetari tra Nord e Sud. L’ attuazione della legge n. 42 del 2009, di per sé complessa, privata di sostegno istituzionale è andata a rilento. Così, la debolezza e la disattenzione dello Stato hanno lasciato il Paese nella transizione istituzionale permanente che ha segnato i rapporti finanziari con gli enti locali sin dai decreti Stammati degli anni Settanta. La crisi finanziaria, politica e istituzionale dell’ estate 2011 ha avviato una fase di neo-centralismo, mentre il dibattito si è spostato sulla stabilità finanziaria, sulla solidità del sistema bancario, sullo spread, sui rapporti con l’ Europa. La politica economica si è concentrata sulle misure che, dal centro, avrebbero dovuto concorrere al consolidamento fiscale prima e al recupero di competitività poi. Per la verità, i segni di un rallentamento sul federalismo erano emersi già a maggio del 2011, quando il Decreto legislativo 68, strumento chiave per l’ attuazione della legge n. 42, aveva spostato in avanti la sua stessa attuazione rinviandola ad altri atti successivi. Il giorno dopo la sua pubblicazione, il decreto-legge n. 70 (Semestre europeo) avrebbe proclamato l’ esistenza della crisi. Gli strumenti di coordinamento tra livelli di governo, la costruzione delle capacità amministrative e degli strumenti contabili necessari per il funzionamento del nuovo assetto istituzionale sono passati in secondo piano. Non si sono definiti i livelli essenziali delle prestazioni da assicurare a tutti i cittadini e non si è completato il processo di stima dei fabbisogni e dei costi standard per misurare l’ adeguatezza e l’ efficienza dei servizi pubblici sui territori. Nel frattempo, i problemi di assetto dei rapporti tra Stato ed enti locali non sono affatto svaniti, né si è attenuato il dualismo tra Nord e Sud in termini di crescita economica e di efficienza della macchina pubblica. Oggi, le richieste di autonomia differenziata di Veneto e Lombardia, precedute dai due referendum consultivi del 2017, hanno riaperto violentemente il cantiere federalista. Un cantiere in cui la confusione ha preso il sopravvento, per l’ assenza di una legge di attuazione del disegno costituzionale ma anche perché, a livello di sistema, lo Stato non aveva nel frattempo gestito il decentramento delle competenze, non aveva esercitato le proprie funzioni d’ indirizzo e di controllo, e aveva passato in larga misura alla Corte costituzionale l’ onere di dirimere le tante ambiguità presenti nella modifica alla Costituzione del 2001. Le rivendicazioni di Veneto e Lombardia sono diverse tra loro, ma presentano alcuni tratti comuni. Riguardano la possibilità di trattenere quote più elevate del gettito tributario prelevato sul territorio per finanziare localmente una serie di servizi su cui l’ autonomia è prevista ai sensi dell’ articolo 116 comma terzo della Carta Costituzionale. Le proposte vertono soprattutto sull’ organizzazione del settore dell’ istruzione e si concentrano poi su aspetti eminentemente amministrativi. Per i primi cinque anni si prevede che lo spostamento di gettito dallo Stato alle regioni sia commisurato alla spesa storica per i servizi devoluti. In altri termini, la maggiore autonomia non si tradurrebbe in una riduzione della capienza disponibile per gli interventi perequativi a favore dei territori meno ricchi, mentre le due regioni rinuncerebbero a internalizzare i differenziali di risorse che otterrebbero se si applicasse da subito il criterio dei costi standard, mai tradotto in pratica nonostante le previsioni legislative del 2009 e del 2011. Non sono all’ orizzonte interventi di riforma della Carta Costituzionale e non sarà semplice districarsi nel labirinto delle sovrapposizioni di potestà e di competenze del federalismo all’ italiana. Serve promuovere la definizione concreta e l’ aggiornamento dei livelli essenziali delle prestazioni che la legge 42 e il Decreto legislativo 68 hanno posto come cardini per il bilanciamento tra autonomie e tutela dei diritti dei cittadini, nel rispetto dell’ articolo 119 comma 4 della Costituzione. Lo «scandalo» del federalismo differenziato, scoperto a distanza di 18 anni dalla riforma del Titolo V, costringe la politica a un ritorno alla realtà. È necessario che questa fase sia governata, ma è possibile farne un punto di svolta in positivo. Certo le richieste sono state formulate a gran voce e a gran voce sono ora criticate. La minaccia di secessione dei ricchi non è all’ orizzonte, ma l’ attuazione delle intese deve trovare un’ adeguata cornice parlamentare e di dibattito pubblico. Altrimenti, il rischio più grande è che le istanze sull’ autonomia differenziata siano rappresentate come la guerra dei ricchi avari contro gli straccioni spreconi. Questa rappresentazione, caricaturale e divisiva, fomenterebbe nuove lacerazioni dell’ unità nazionale, ridotta all’ algebra dei rapporti e dei trasferimenti monetari. Le richieste di maggiore autonomia risulteranno disgregatrici solo se la politica non saprà accompagnarle e lo Stato continuerà a gestire in modo disordinato la ripartizione delle funzioni con gli enti territoriali, senza recuperare il grave ritardo accumulato nella definizione dei fabbisogni, dei livelli essenziali delle prestazioni e dei costi standard. In quel caso, peraltro, la disgregazione, istituzionale e sociale, sarebbe destinata a compiersi comunque. Il decentramento, lo abbiamo imparato dai tempi di Cavour, Minghetti e Francesco Ferrara, può vivere solo quando la capacità dello Stato è forte e sa preservare solidarietà, autonomia, sussidiarietà. Un principio ben presente anche a Luigi Sturzo. Solo uno Stato centrale forte, nelle istituzioni della politica e nell’ amministrazione, potrà accompagnare la ricerca di quell’ equilibrio tra responsabilità, autonomia e solidarietà di cui la nostra società e il nostro Paese hanno, oggi più che mai, bisogno.