I riflettori che si sono accesi sull’adeguamento all’aspettativa di vita dell’età di pensionamento hanno oscurato il fiume carsico della spesa sanitaria.
Dal 2013 la spesa sanitaria pubblica è passata da 107 a circa 114 miliardi. Un incremento significativo, che ha consentito di fronteggiare la crescita della domanda guidata dall’invecchiamento della popolazione e dall’innovazione medica e farmaceutica per il trattamento di patologie prima invalidanti o letali.
Nonostante l’aumento delle risorse e la buona qualità complessiva del sistema sanitario, le tensioni sono forti. Quest’anno, i riflettori si sono accesi sulle risorse per l’edilizia sanitaria e il rinnovo dei contratti, sui ticket per la diagnostica e le visite specialistiche e sulla revisione della governance della spesa farmaceutica, per far sì che lo Stato impari a modulare la spesa in relazione ai risultati per i pazienti, abbandonando un sistema, per la verità abbastanza rozzo e di arcaica concezione, di tetti e di vincoli, che arriva ora a insidiare il diritto alla mobilità dei pazienti da una regione all’altra del Paese.
Al di là delle soluzioni concrete che saranno messe a punto, il confronto tra richieste di aumento del finanziamento e resistenze in nome della tenuta della finanza pubblica riproduce un rituale antico, mai superato nonostante il risanamento dei conti avviato con la riforma federalista e con i piani di rientro imposti alle Regioni sin dal 2006.
Questo supplizio di Sisifo, in cui ogni aumento del finanziamento pubblico apre la via a nuove restrizioni da economia pianificata e a nuove richieste, è destinato a durare nel tempo. Il flusso di nuove terapie continuerà negli anni a venire, né vi sono segni che possano ridursi l’invecchiamento della popolazione e le aspettative sugli standard di qualità delle prestazioni. È necessario, allora, concentrarsi sulla natura delle trasformazioni in atto, al di là di emergenze e, specularmente, di coperture e tagli di corto respiro.
A essere non sostenibile è un modello di finanziamento che pretende di essere universalista ma poi nasconde sotto il tappeto i 37 miliardi di spesa privata annua che ne assicurano la tenuta. Una spesa, questa, che si abbatte sulle casse e sugli equilibri familiari quando scatta, improvviso e inesorabile, l’allarme per uno dei nostri cari.
La spesa sanitaria pubblica è finanziata dalla fiscalità generale per assicurare equità, ed è questo un tratto distintivo del nostro sistema. Come sempre accade, però, razionamento delle risorse e disparità di accesso e di standard di qualità colpiscono proprio le fasce più deboli.
La verità è che, da solo, lo Stato non ce la fa: né a coprire la spesa, né a organizzare e strutturare l’offerta. Non foss’altro per questo, è tempo di liberare la sanità dal pregiudizio secondo cui la tutela delle posizioni individuali andrebbe demandata in via esclusiva al finanziamento pubblico.
L’universalismo sanitario deve saper diventare aperto e selettivo. Da un lato, realizzando una piattaforma nazionale di finanza di progetto per le infrastrutture edilizie e per i sistemi informatici a supporto della prevenzione, della diagnostica, delle decisioni mediche e della valutazione dei risultati. Da un altro lato, misurando le condizioni di salute e di reddito dei cittadini per costruire, con adeguate campagne d’informazione e con opportune agevolazioni fiscali, un solido pilastro di finanziamento complementare – mutualistico, assicurativo e previdenziale – capace di contenere gli effetti negativi della malattia sul lavoro e sulla vita delle famiglie.
Se questa svolta non ci sarà, la coperta corta dell’esclusività del finanziamento pubblico e dell’ideologia tornerà, ogni anno, a far gridare alla crisi della sanità, avendone accuratamente e pervicacemente costruito i presupposti.