La lettera della Commissione Europea al governo italiano riflette una preoccupazione fondata, contiene una contraddizione, e rivela la necessità, per Bruxelles, di rivedere regole e strumenti di lavoro.

La preoccupazione è quella per un Paese con alto debito pubblico, bassa crescita e rinnovata incertezza sul fronte politico e istituzionale.

Rimane difficile, però, ed è qui la contraddizione, cogliere il nesso tra questa preoccupazione e rilievi che si concentrano invece sui decimi di punto percentuale e sulle misure straordinarie per gli immigrati e la messa in sicurezza degli edifici e delle città.

La lettera richiama poi la necessità per l’Italia di mantenersi lungo un sentiero di riduzione del disavanzo. Tuttavia, quando si passa dalle enunciazioni alle misurazioni, gli interrogativi e i dubbi superano di gran lunga le certezze. Come valutare, ad esempio, il cosiddetto output gap, la distanza tra reddito attuale e reddito potenziale? È lecito attendersi che riforme strutturali come quelle del mercato del lavoro e della pubblica amministrazione producano effetti sulla crescita entro due anni? O si dovrebbe considerare un orizzonte di almeno quattro anni?

Il malato, la crescita, sembra non rispondere alle terapie o, invece, in via di miglioramento proprio a seconda della capacità di guardare un po’ più lontano.

Il problema è difficile, perché si tratta di stimare l’impulso reale della politica economica e delle riforme alla crescita futura. Ma, proprio per questo, il tema di quali indicatori considerare non è più rinviabile, per evitare che strumenti e misurazioni non ‘tarati’ finiscano per penalizzare proprio quei Paesi e quei Governi che fanno le riforme e pagano pegno per metterle in moto.

Purtroppo, i limiti dei richiami di Bruxelles non cancellano certo l’alto debito pubblico, né tanto meno imprimono un impulso alla crescita.

Compiti, questi, che rimangono segnati in bella evidenza sulla nostra lavagna.

Mentre le revisioni al decreto fiscale si occupano di irrobustire le coperture, la manovra sembra ispirata alla logica del rammendo pensata da Renzo Piano per le periferie.

In questo caso, agli interventi sui numerosi punti di fragilità sociale dovrebbe accompagnarsi uno sforzo ulteriore, concentrato su tre capitoli prioritari: investimenti, giovani, oneri sul lavoro.

Troppi investimenti pubblici si bloccano perché mal progettati o per il gioco dei poteri di veto. Troppe volte, una volta arrivati al progetto definitivo, questo non si traduce in esecutività, in cantieri e lavori. Serve allora una cabina unica di regia per la progettazione e per gli investimenti pubblici, così come serve un vero piano nazionale di partnership pubblico privato, capace di mobilitare il cofinanziamento dei grandi investitori istituzionali.

I giovani: Sette miliardi di euro sono stati stanziati per l’anticipo pensionistico. Scelta per certi versi comprensibile anche se forse intempestiva. Certo, rimane il peso sproporzionato del capitolo pensioni nell’agenda di politica economica. Va allora introdotto, da subito, un taglio permanente e significativo del carico contributivo per tutti i giovani sotto i venticinque anni. Il peso sui conti pubblici sarebbe pressoché nullo, ma si tratterebbe di un segnale di grande impatto per le imprese e per gli occupati di domani. Infine, serve un intervento per dare presto ossigeno fiscale e contributivo all’esercito delle partite Iva.

Investimenti, giovani e partite Iva. In apparenza, capitoli di un cambio di campo di gioco rispetto ai rilievi minuti di Bruxelles. Nei fatti, la migliore risposta ai problemi che rimangono scritti sulla nostra lavagna.