Sale la febbre sulle regole del gioco in Europa, ristagna l’economia europea. I miracoli non sono contemplati, e le ragioni del ristagno sono profonde.

La demografia, innanzi tutto. Negli Anni Sessanta, la crescita annua era sopra il 5%. Eravamo nel bel mezzo di quelli che Fourastié definì “Les Trente Glorieueses”, i Gloriosi Trent’anni della ripresa post bellica; oltre un terzo della popolazione aveva meno di trent’anni e solo il 6% ne aveva più di 70.

Oggi il quadro è ben diverso e le proiezioni volgono al brutto. Certo, la crisi del 2007 ha aggiunto elementi di fragilità e ha acuito il rallentamento. Ma nella storia, non conosciamo periodi d’intensa crescita economica che non siano sostenuti da una demografia vitale. Questa regola vale per i Paesi, ma anche per le città. Gli esempi sono sotto i nostri occhi. Alcune città invecchiano, mentre centri come Boston, Londra, Basilea o, in Italia, Milano, crescono e si rinnovano perché sanno attrarre nuove idee, nuovi giovani e nuove imprese. Sono questi flussi a trasformare il tessuto sociale e urbano, con un impatto decisivo sulla crescita. Ben vengano allora investimenti pubblici dedicati a migliorare le nostre infrastrutture e come stimolo temporaneo per uscire dalle secche. Ma, troppo spesso, la spesa pubblica per investimenti è stata poco produttiva e a tutto è servita meno che ad attrarre sangue fresco per stimolare la crescita.

L’Europa, certo, ha impiegato un bel po’ di tempo prima di darsi una politica sugli investimenti, alle prese con differenze d’interessi e con il convitato di pietra di ogni tensione: la sfiducia del Nord per la credibilità del Sud nel mantenere promesse e impegni. Il Piano Juncker è partito nel 2015, le risorse messe sul tavolo sono limitate. Uno stimolo tardivo, non confrontabile con la forza della risposta statunitense alla crisi. Il piano di stimolo di Obama fu deliberato nel febbraio del 2009, le risorse subito stanziate, l’impatto, tra investimenti e sgravi fiscali, sopra il 5% del Pil. Un fallimento annunciato, allora? No.

Un punto del Piano, in particolare, va salvaguardato e rafforzato. La Banca Europea degli Investimenti e le banche nazionali di promozione hanno iniziato a finanziare progetti più rischiosi rispetto al passato, allargando il numero delle controparti e la tipologia delle operazioni, con un profondo rinnovamento organizzativo e di operatività. La volontà di superare la logica del finanziamento a fondo perduto e di attrarre capitali privati segna un cambiamento culturale di portata epocale mentre i tassi ai minimi storici aiutano investimenti su orizzonti temporali prolungati, per progetti «pazienti», che in passato non sarebbero stati giudicati attrattivi da banche e investitori istituzionali. Insomma, non è una panacea, ma dietro la narrativa del Piano Juncker c’è la sostanza di un’opportunità per i Paesi che sapranno aumentare la qualità dei propri progetti, definire le priorità, seguire le diverse fasi, supportare le stazioni appaltanti, legare l’investimento ai piani tariffari delle opere.

Una sfida per l’Italia, certo, ma anche per l’Europa, chiamata a trovare le risorse per aumentare l’effetto moltiplicatore delle garanzie. La nuova piattaforma italiana per le piccole e medie imprese è un esempio positivo, di mutuo sostegno tra la garanzia europea e quelle del Ministro dell’economia e dalla Cassa Depositi. Serve valorizzare questo modello anche in altri comparti e serve aumentare la dimensione delle garanzie, guardando ad esempio all’enorme massa di liquidità detenuta dal fondo salvastati European Stability Mechanism (Esm). Un punto, questo, da discutere presto, anche considerando i rendimenti negativi dei bund che stanno al cuore della gestione della tesoreria di Esm.