Il Governo italiano si è impegnato a rispettare la sentenza della Corte di Giustizia Europea sull’equiparazione uomo-donna dell’età di pensionamento di vecchiaia dei lavoratori pubblici. Che la soluzione sia quella della bozza di intervento circolata il 3 Marzo u.s. oppure altra, a meno di cambiamenti di indirizzo che comunque ci esporrebbero alle sanzioni della messa in mora, il requisito anagrafico sarà equiparato. Dal punto di vista della razionalizzazione del sistema pensionistico e della riforma del welfare, anche se avvenisse immediatamente, l’equiparazione avrebbe effetti di scarso rilievo. A normativa invariata e grazie alla presenza degli “scalini” introdotti con l’ultima riforma pensionistica del 2007, potrebbero non derivarne significativi risparmi di spesa, almeno nei prossimi due o tre anni. Tuttavia, a ben guardare alcuni aspetti della sentenza implicano ricadute molto più vaste, di particolare rilievo nell’attuale dibattito sulla riqualificazione della spesa per welfare e sugli ammortizzatori del mercato del lavoro. Ci sono buone ragioni per ritenere che la sentenza abbia validità per tutte le pensioni di tipo previdenziale e non assistenziale, sia nel comparto del lavoro pubblico che nel privato. In precedenti sentenze, infatti, la Corte aveva qualificato come retribuzione una pensione il cui diritto matura in virtù dell’attività di lavoro prestata e della relativa contribuzione, e calcolata come percentuale di una retribuzione pensionabile o sulla base dei contributi versati e accumulati. Se così è, la parità uomo-donna sul mercato del lavoro e nel trattamento retributivo, all’origine dell’intervento della Corte, è violata ogni qual volta i parametri di accesso alla quiescenza o le regole di calcolo della pensione si differenzino. In altri termini, le pensioni a natura previdenziale rientrano nella sfera del diritto del lavoro, e allora il dispositivo della Corte coinvolge anche le pensioni di vecchiaia dei lavoratori pubblici e gli stessi coefficienti “Dini” di trasformazione del montante nozionale in rendita, oggi identici a fronte di aspettative di vita diverse tra maschi e femmine. Tra le righe della sentenza, si possono leggere delle linee di riforma del nostro sistema pensionistico che oggi parrebbero rispondere, oltre che ad una logica del diritto, anche ad una chiarissima e non più differibile logica dell’economia.Il Governo italiano ha risposto positivamente alla sentenza della Corte di Giustizia Europea sull’equiparazione uomo-donna dell’età di pensionamento di vecchiaia dei lavoratori pubblici. La bozza di intervento trasmessa il 3 Marzo alla Commissione Europea si avvia  a chiudere il contenzioso, e prevede che, dopo un periodo di transizione, si giunga alla parificazione. Dal punto di vista della razionalizzazione del sistema pensionistico e della riforma del welfare, nell’immediato gli effetti saranno di scarso rilievo. A normativa invariata e grazie alla presenza degli “scalini”, potrebbero non derivarne significativi risparmi di spesa, almeno nei prossimi due o tre anni. Tuttavia, alcuni aspetti della sentenza implicano ricadute molto più vaste, di particolare rilievo nell’attuale dibattito sulla riqualificazione della spesa per welfare e sugli ammortizzatori del mercato del lavoro.

L’indicazione sostanziale della sentenza della Corte è chiara: non è con un anticipo della pensione, a fine carriera e, in casi sfortunati, anche a fine vita, che si può perseguire la parità uomo-donna nel mondo del lavoro e nella società. Si deve ricercare la parità in contemporanea con ogni fase della carriera e della vita; parità nelle opportunità e nelle possibilità di scelta. E se su un piano di diritto questo è indubitabile, si deve anche sottolineare come l’affermazione del diritto coincida perfettamente con la logica dell’economia, e viceversa. L’apporto che le donne possono dare al sistema economico e alla società va valorizzato in primo luogo durante la vita attiva, e non attraverso regole pensionistiche “risarcitorie”. Pareri discordanti sono emersi, invece, per quanto riguarda l’ambito di applicazione della sentenza, sotto tre aspetti:

(a)il riferimento della Corte ai regimi pensionistici professionali e non a quelli legali;
(b) il rapporto tra la sentenza, l’articolo 141 del Trattato CE e la Direttiva del Consiglio n. 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978;
e (c) l’estendibilità della stessa sentenza al di là della gestione INPDAP e del parametro anagrafico per il pensionamento di vecchiaia.

Le considerazioni che di seguito si espongono fanno ritenere che: la sentenza abbia validità nei confronti di tutte le pensioni di tipo previdenziale e non assistenziale; che questa interpretazione sciolga l’apparente contrasto esistente tra la sentenza, l’articolo 141 del Trattato CE e la Direttiva del Consiglio n. 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978; che, proprio in virtù di questa interpretazione, il dispositivo della sentenza sia estendibile al di là della gestione INPDAP e del parametro anagrafico per il pensionamento di vecchiaia, a riguardare tutte le regole del sistema pensionistico erogante prestazioni diverse da quelle a carattere assistenziale.

(a)Regimi legali vs. regimi professionali
Al punto 10 della sentenza, la Corte considera quello dell’INPDAP come un regime professionale, ovvero un regime che si applica solo ad un predefinita platea di lavoratori diversa dalla generalità degli stessi, indipendentemente dalla sua natura obbligatoria o facoltativa nell’adesione.
Anche se si caratterizzano diversamente a seconda dei contesti nazionali (ad esempio, in alcuni casi sono sostituivi, in altri complementari e integrativi della pensione di base), i regimi professionali si fondano sulla contrattazione tra parti sociali e possono riguardare la singola impresa, un comparto/settore produttivo, un’area territoriale, etc.
I regimi legali, invece, sono quelli di base coinvolgenti tutti i lavoratori senza distinzioni di sorta, e obbligatori a meno di opting-out laddove possibile (come nel Regno Unito).

È vero, la Corte compie un errore nell’equiparare il regime INPDAP ad un regime professionale, tratta forse in inganno dal fatto che per i dipendenti pubblici il datore di lavoro e l’erogatore materiale della pensione sono un unico soggetto, l’Amministrazione Pubblica nel cui bilancio è consolidato il bilancio dell’INPDAP. Il regime INPDAP è un regime legale: obbligatorio, di base, con regole, dopo tutte le riforme degli anni Novanta, uguali a quelle riguardanti i lavoratori privati, tanto che, sul piano pensionistico, se non fosse per il permanere dei due Enti gestori, si potrebbe tout court parlare di un unico regime legale riferito ai lavoratori dipendenti (e di fatto così è).

L’errore non è privo di conseguenze perché, definendo il regime INPDAP come professionale, la Corte  espone la sentenza all’obiezione appena citata. Inoltre, per i regimi legali, la Direttiva 79/7/CEE del Consiglio in data 19 Dicembre 1978, “Graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale“, ha lasciato agli Stati Membri la facoltà di prevedere una diversa età di pensionamento di vecchiaia tra uomini e donne.

Se, dunque, cade il presupposto che quello dell’INPDAP sia un regime professionale, naturaliter vengono meno le ragioni del dispositivo della sentenza.Ma una lettura attenta delle affermazioni della Corte porta a dire che così non è. Sono dirimenti i punti 51. e 52. della sentenza, laddove si citano la precedenti sentenze “Griesman”, “Niemi” e “Maruko”, a proposito delle quali la Corte aveva qualificato come retribuzione una pensione il cui diritto matura in virtù della prestata attività di lavoro e di contribuzione, e il cui importo è calcolato come percentuale di una retribuzione pensionabile o sulla base dei contributi versati e accumulati ad un fattore di capitalizzazione.

Se le pensioni così qualificate sono retribuzione, allora l’articolo 141 del Trattato CE[1] è violato ogni qual volta esistono regole che riguardano queste pensioni differenziate tra uomini e donne, indipendentemente che l’erogazione avvenga all’interno di regimi professionali o legali. D’altronde, è vero che per i regimi professionali la caratteristica retributiva è rafforzata dal fatto che le regole pensionistiche sono specifiche a un comparto/settore produttivo o addirittura a una singola impresa, e derivano in larga misura dalla contrattazione tra il datore di lavoro e le parti sociali condotta assieme alla più generale contrattazione del costo del lavoro. Tuttavia, è parimenti vero che anche i contributi del datore di lavoro ai regimi legali entrano nel costo del costo del lavoro e sono considerati all’interno della contrattazione. Inoltre, se è vero che un gestore/erogatore di diritto pubblico (come l’INPDAP) o comunque di natura pubblica si interpone tra i contributi del lavoratore e del datore di lavoro e l’erogazione effettiva della pensione, è anche vero che nella maggior parte dei casi l’interposizione di un soggetto terzo, gestore/erogatore, si realizza anche nei regimi professionali (il fondo pensione, la società di assicurazione, il soggetto abilitato alla trasformazione di montante in rendita vitalizia, etc.).

Dalle argomentazioni riportate nella sentenza della Corte emerge che l’elemento rilevante, necessario e sufficiente ad equiparare la pensione a retribuzione e a far intervenire l’articolo 141 del Trattato CE, è la natura previdenziale e non assistenziale della pensione. In altri termini, la pensione è equiparabile alla retribuzione quando il diritto alla stessa si acquisisce non in virtù di una prova di una condizione di indigenza, ma in virtù dello svolgimento di una attività lavorativa comportante il versamento di contributi, indipendentemente dal criterio di rapporto tra carriera retributiva e ammontare del vitalizio. La pensione è assimilabile a una retribuzione se essa non è strumento assistenziale, ma è un reddito che il lavoratore esplicitamente predispone per la sua quiescenza mentre è attivo sul lavoro e partecipa, attraverso i contributi suoi e del datore del lavoro, ai programmi previdenziali, siano questi in regime legale o professionale. In questo caso, la pensione è un reddito che si guadagna col lavoro, indi equiparabile a reddito da lavoro e coinvolta dal principio di cui all’articolo 141 del Trattato CE.

(b)Rapporto tra la sentenza, l’articolo 141 del Trattato CE e la Direttiva del Consiglio n. 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978

Questa lettura, che ha una ratio economica molto forte[2], può ricomporre l’evidente disallineamento tra la sentenza, l’articolo 141 del Trattato CE e la Direttiva del Consiglio n. 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978.Il Trattato CE afferma in termini inequivocabili la parità di trattamento retributivo tra uomo e donna. La giurisprudenza consolidata della Corte equipara le pensioni previdenziali a retribuzioni e, di conseguenza, afferma la necessità di parificazione delle regole tra uomo e donna. Poi c’è la Direttiva n. 79/7/CEE, che non può muoversi in contrapposizione col Trattato ma che, all’articolo 7 comma primo, lascia ai Paesi Membri la facoltà di fissare età di pensionamento di vecchiaia differenziate uomo-donna all’interno dei regimi pensionistici legali.

Per ricomporre il quadro normativo e giurisprudenziale è necessario distinguere chiaramente tra prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali: le prime ricadrebbero nella sfera del diritto del lavoro, per rispettare l’articolo 141 del Trattato; le seconde sarebbero qualificate come interventi del welfare a finalità specificatamente redistributive, finanziate dalla fiscalità generale e per questo motivo lasciate dall’articolo 7 alla libera determinazione degli Stati Membri, anche con riguardo ai parametri di qualificazione anagrafica.
A questo proposito, è utile sottolineare che l’articolo 7 della Direttiva, quando lascia liberi di Stati di scegliere soglie anagrafiche diverse, li chiama anche a valutare le “conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni“. In questo passaggio si coglie un tentativo, sia pure non pienamente razionalizzato, di collegamento fra le regole delle pensioni previdenziali e lo sviluppo degli altri istituti di welfare che nel 1978 non era possibile, per varie ragioni[3], articolare meglio.

(c)L’estendibilità della sentenza al di là della gestione INPDAP e del parametro anagrafico per il pensionamento di vecchiaia

Se l’equiparazione uomo-donna trova la sua ragione nel fatto che le pensioni a natura previdenziale rientrano nella sfera del diritto del lavoro, allora la sentenza è tout court estendibile al di là della gestione INPDAP e al di là del parametro anagrafico per la vecchiaia, coinvolgendo anche le pensioni INPS e i coefficienti “Dini” di trasformazione del montante nozionale in rendita[4].
Infatti, a fronte di diversa speranza di vita post-pensionamento, la parità uomo-donna richiede una diversa considerazione del parametro dell’età anagrafica che partecipa al calcolo degli stessi coefficienti “Dini”. Ad oggi, la differenziazione dei coefficienti implica, tra l’altro, che flussi di redistribuzione vadano preferibilmente a beneficio di quelle donne che hanno avuto possibilità/capacità di occupazione stabile e duratura, e non si rivolgano, invece, alla universalità dei cittadini, secondo ordini di priorità predefiniti e chiari, anche con riferimento al ruolo delle donne nella famiglia, nella società, nel lavoro. La differenziazione implica, per giunta, che questi flussi di redistribuzione si materializzino a fine carriera/vita, il più delle volte sconnessi e sfasati temporalmente rispetto alle fasi del ciclo di vita in cui più forti sono le esigenze di coesione e sostegno dalla società all’individuo.

L’auspicio è che l’Italia possa far tesoro della sentenza della Corte di Giustizia Europea, prendendola come spunto per le riforme delle pensioni e del welfare. In caso contrario, sarà la Corte a esprimersi anche sugli altri snodi delle regole pensionistiche in base alle quali uomini e donne, insider ed outsider al mercato del lavoro, sono discriminati. Si tratta in definitiva di sciogliere formalmente e definitivamente l’equivocità/contraddizione rilevata tra Trattato e giurisprudenza della Corte da un lato e, dall’altro, la Direttiva n. 79/7/CEE del 19 Dicembre 1978. Per rispettare l’articolo 141 del Trattato, è necessario sostituire la distinzione tra regimi professionali e regimi legali con quella, più logica e coerente, tra pensioni a finalità previdenziale e pensioni a finalità assistenziale.

La sentenza e la messa in mora dell’Italia hanno aperto un processo che è destinato a compiere comunque il proprio corso. I principi alla base della sentenza sono tout court estendibili al complesso delle regole pensionistiche e, se richiesta di esprimersi anche sulla gestione INPS, sui coefficienti “Dini” e su tutte le altre regole di differenziazione uomo-donna in ambito pensionistico, la Corte non potrà non farlo secondo quegli stessi principi. Ma non solo dal nuovo interessamento della Corte che potranno arrivare ulteriori sollecitazioni alle riforme. Una volta adeguate le regole della gestione INPDAP al dispositivo della sentenza della Corte, emergeranno altri profili di diritto rilevanti per la Corte Costituzionale, come l’assoggettamento dei lavoratori a regole del sistema pensionistico obbligatorio diverse a seconda della natura pubblica o privata del loro contratto di lavoro e, più in particolare, la diversa realizzazione della parità dei diritti e dei doveri tra uomo e donna  in ambito lavorativo. Il processo di cambiamento è avviato e non si arresterà. Si tratta d’impegnarsi per realizzarlo nella maniera migliore.


[1] Articolo 141, comma primo: “Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore“.
[2] È retribuzione tutto ciò che il datore di lavoro destina a ricompensa del lavoratore, indipendentemente che queste si concretizzino in retribuzione corrente o retribuzione differita.
[3] A cominciare dallo stadio di avanzamento della costruzione europea e delle sue Istituzioni.

[4] All’interno del criterio di calcolo contributivo nozionale introdotto, con un fase di transizione, nel 1995.