L’Italia in controluce in un confronto con Germania, Francia e Spagna

L’Employment Outlook dell’OCSE ripropone il critico quadro del mercato del lavoro italiano che ci accompagna ormai da diversi anni: bassi tassi di occupazione (significativamente al di sotto della media UE e lontanissimi dai target di “Lisbona-Stoccolma”); basse retribuzioni nette (-20 per cento rispetto alla media OCSE, -17 per cento rispetto alla media UE); sovraccarico di ore sui pochi occupati.

Sulla base del database online di Eurostat aggiungiamo alcune riflessioni in una prospettiva di policy, confrontando l’Italia con Francia, Germania e Spagna:
    Tra il 2000 e il 2007, la Spagna ha fatto registrare la crescita più intensa, misurata come rapporto tra l’indice del PIL nominale e l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IPCA)[1]: oltre il 33,5 per cento, equivalente in media a più del 4,5 per cento all’anno. Per la Francia, i corrispondenti valori sono stati del 14,7 e del 2,1. L’Italia è cresciuta meno: meno del 10 per cento sui sette anni che, su base annuale, equivale in media a poco più dell’1,3 per cento. Ancor meno la Germania: 4,3 e 0,6 per cento.
     È comprensibile che una così intensa crescita si sia accompagnata in Spagna a tensioni inflazionistiche: l’indice dei prezzi al consumo armonizzato (IPCA) è aumentato di oltre il 24 per cento (3,5 su base annuale). Più preoccupante, perché abbinata ad una crescita reale modesta, è l’aumento di quasi il 18 per cento dell’IPCA italiano (2,5 su base annuale). Minor inflazione ha fatto registrare la Francia, pur cresciuta più dell’Italia (14,5, poco più di 2 su base annuale, in linea con il target di Maastricht). La Germania, “aiutata” anche dalla bassa crescita, ha fatto registrare il dato più basso (12,6 e 1,8 su base annua).
       Se si guarda allo stato dell’occupazione (in qualunque posizione lavorativa/professionale), tra il 2000 e il 2007, è sempre la Spagna a far registrare il maggior aumento: + 33 per cento in termini di teste occupate. L’incremento minore è quello della Germania: poco più del 5 per cento. Italia e Francia fanno registrare una dinamica simile, con un + 11 per cento circa di occupati che, nel caso dell’Italia, non risolve i problemi del mercato del lavoro di cui il nostro Paese soffre in proporzioni maggiori dei Partner.
        Una speculare evidenza giunge dall’analisi del comparto del lavoro dipendente. Tra il 2000 e il 2007, la Spagna fa  registrare un + 36 per cento, la Germania un  + 3,4, mentre Italia e Francia rispettivamente + 14,2 e + 11,4.

Dal confronto con i Partner, scaturisce una conferma della situazione di criticità che traspare dal lavoro dell’OCSE, nient’affatto nuova per il nostro Paese, ma che proprio per questo dovrebbe indurre a riflettere sulle più idonee soluzioni di policy: si cresce poco; l’occupazione (che è una delle leve della crescita) rimane bassa; sono in atto tensioni inflattive che non trovano giustificazione (come per la Spagna) nel processo di crescita, ma piuttosto nella “qualità” dei mercati e nella non-crescita (numerosità delle posizioni di potere di mercato e scarsità dell’offerta rispetto alla domanda)[2]. In particolare, questa condizione di (quasi) stagflazione è confermata dai più recenti dati sull’inflazione diffusi dall’ISTAT (+4,0 per cento la tendenziale a Giugno, stima preliminare dell’ISTAT), e dalla Segnalazione (AS 453) dell’AGCM che è un vero riepilogo, “trasversale” a tutti i settori, degli interventi necessari ad aprire e ammodernare i mercati.

Assieme all’occupazione, l’altra leva dello sviluppo è la produttività del lavoro (il valore aggiunto per occupato); e, in un mercato del lavoro che funzioni bene, la produttività dovrebbe essere la determinante della retribuzione del lavoro. Se l’OCSE ribadisce il basso livello delle retribuzioni italiane, utilizzando il database Eurostat verifichiamo, dunque, quali sono state le dinamiche relative delle retribuzioni lorde per lavoratore dipendente e del valore aggiunto per occupato in Italia, Francia, Germania.

In Germania, tra il 2000 e il 2007, le retribuzioni sono cresciute molto meno del valore aggiunto: + 11,2 per cento quest’ultimo, + 4,6 le prime; una situazione di squilibrio riconducibile, con ogni probabilità, alle difficoltà che il mercato del lavoro tedesco ha attraversato tra il 2000 e il 2004, con una caduta degli occupati di circa il 2,5 per cento e dei lavoratori dipendenti di circa il 4 per cento.

In Francia si osserva, invece, una quasi perfetta coevoluzione, con entrambe le grandezze che crescono di circa il 18 per cento in sette anni.

Per la Spagna non è disponibile il dato sulle retribuzioni del 2007. Tra il 2000 e il 2006, il valore aggiunto ha avuto una crescita più intensa delle retribuzioni: + 19,7 per cento il primo, + 9,4 le seconde. Una condizione che riflette il processo di sviluppo che la Spagna sta vivendo e che, tramite la crescita del valore aggiunto, trasferisce risorse anche alle retribuzioni.

Veniamo all’Italia. Si tratta dell’unico caso – tra i quattro esaminati –  in cui le retribuzioni sono cresciute più del valore aggiunto: + 18,8 le prime, + 16,2 il secondo; e in cui la dinamica del valore aggiunto è sempre rimasta al di sotto di quella delle retribuzioni.

Confronti della crescita del valore aggiunto tra Paesi non sono direttamente fattibili, perché è necessario deflazionare le serie. Se così si fa, si ottiene che: tra il 2000 e il 2007, in Italia la produttività reale per occupato è diminuita dell’1,29 per cento[3]; è diminuita dell’1,27 per cento in Germania; è aumentata del 3,45 per cento in Francia; mentre in Spagna è aumentata dello 0,36 per cento, ma questo dato risente del forte aumento dell’occupazione spagnola che è plausibile che nell’immediato provochi una caduta della produttività anche se, in prospettiva, è un fattore che può porre le basi per uno sviluppo economico duraturo fatto anche di rafforzamento della produttività.

Ricapitolando: da un lato, è vero che le retribuzioni sono basse in Italia e che è giusto perseguire il loro aumento; dall’altro lato, i dati Eurostat mostrano come non se ne stiano creando i presupposti, perché la produttività ristagna o addirittura arretra.

Sarebbe sbagliato vedere dietro il deficit di produttività soltanto un problema delle forze di lavoro, di qualità del capitale umano inglobato nei processi produttivi, che pure esiste. Il valore aggiunto scaturisce dall’intera funzione di produzione, che racchiude tutti i fattori produttivi, ivi incluse le scelte strategiche e organizzative delle imprese.

Dietro quel dato si nascondono tutti gli snodi irrisolti del sistema produttivo italiano, che vanno dalle scelte strategiche delle imprese (il modello di sviluppo, l’innovazione, la qualità del capitale fisico), all’apertura a concorrenza dei mercati, soprattutto di quelli che riguardano beni e servizi intermedi che sono input per le imprese (si pensi all’energia e alle grandi utilities, ai servizi pubblici locali, ma anche ai servizi professionali e alle funzioni della PA). Ma dietro quello stesso dato si nasconde lo snodo, anch’esso irrisolto, della riforma dei rapporti di lavoro e della contrattazione delle retribuzioni, verso schemi più flessibili, supportati da un welfare rinnovato[4], che permettano di differenziare e di premiare il merito.

Questi snodi sono gli stessi che, ingessando il sistema economico e impedendogli la crescita, incidono sui livelli occupazionali; e sono gli stessi che, permettendo rendite di posizione sui mercati dei beni e dei servizi, erodono il potere di acquisto delle retribuzioni.

Crescita, occupazione e valorizzazione della produttività del lavoro sono tutt’uno con le politiche di apertura dei mercati, incluso quello del lavoro. I Sindacati dovrebbero dare molta più rilevanza alle politiche pro concorrenziali, come obiettivi intermedi per perseguire il benessere dei lavoratori.


[1] Entrambi gli indici sono a base 2000 = 100. Così facendo, si calcola la crescita reale del PIL utilizzando come deflatore l’IPCA: da un lato si ha il vantaggio di ricorrere ad un deflatore armonizzato per tutti i Paesi; dall’altro, lo svantaggio che l’IPCA non è il deflatore normalmente utilizzato per il PIL.
[2] È vero che sul dato dell’inflazione pesano i prezzi dei derivati del petrolio, del gas naturale e dell’energia; ma, anche al netto di queste componenti, la dinamica dei prezzi resta sostenuta (si veda il Comunicato dell’ISTAT sui prezzi alla produzione dei prodotti industriali, in data 30 Giungo 2008). Inoltre, la maggior vulnerabilità dell’Italia alle tensioni internazionali riguardanti il petrolio e il gas naturale dipende anche dalla struttura interna dei mercati di importazione, trasformazione e rivendita.
[3] Il dato è calcolato come rapporto tra l’indice del valore aggiunto per occupato e l’indice armonizzato dei prezzi al consumo (entrambi con base 2000 = 100).
[4] Istituti a sostegno dell’inclusione nella società attiva e nelle forze di lavoro: una assicurazione contro la disoccupazione di livello europeo, sostegni mirati alle famiglie, alla cura dei figli e dei non autosufficienti, servizi di asilo nido e di scuola materna, etc..