l’urgenza delle riforme del lavoro e delle pensioni traspare sia nei dati macroeconomici che in quelli dei bilanci delle famiglie (BdI)
Sono molteplici le connessioni tra regole pensionistiche e funzionamento del mercato del lavoro. Oltre all’analisi diretta della struttura degli istituti del welfare system e degli effetti che essi generano nelle scelte individuali (prolungamento delle carriere, ricerca del’occupazione, etc., temi affrontati periodicamente da Cerm), l’analisi della banca dati sui bilanci delle famiglie (Banca d’Italia) mette in evidenza altri aspetti, meno noti ma sicuramente utili a rafforzare il dibattito sulla necessità di riformare sia il mercato del lavoro che il sistema pensionistico.
Overlapping generation” all’italiana
Tra il 1980 e il 2006, la percentuale di capi famiglia pensionati e non più attivi è aumentata dal 28,77% al 39,60%; incremento da ascrivere, nel contempo, all’innalzamento della vita media, alla bassa propensione al prolungamento delle carriere oltre i requisiti minimi per il pensionamento definitivo, e all’aumento del’età media con cui i giovani arrivano a costruirsi l’indipendenza economica per divenire capi di una loro famiglia.
In questo scenario di popolazione e famiglie che invecchiano, i casi in cui, sotto uno stesso tetto, convivano nonni e nipoti sono ancora abbastanza rari, circa il 7% (circa 900mila famiglie). Ma questa incidenza aumenta significativamente se si considerano i nuclei famigliari in cui i nipoti siano di età 25-35, inattivi e senza figurare come studenti: in questo caso, è del 20% la probabilità osservata che sotto lo stesso tetto ci sia anche un nonno pensionato (1,2 milioni di famiglie su 2,6 che includono un “bamboccione”). Un simile livello si osserva anche nella probabilità che, se in un nucleo familiare vive un giovane inattivo e non studente di età 25-35, questi conviva con un nonno percettore di pensione.

Quali spiegazioni e quali valutazioni di merito?
Come spiegare e valutare questa sovrapposizione generazionale tra nonni pensionati e nipoti “bamboccioni”? In una situazione in cui il mercato del lavoro fosse pronto ad accogliere i giovani, le pensioni calcolate in base a regole neutrali sul piano finanziario-attuariali (le “Dini” applicate a regime), e il welfare system ben diversificato in tutte le sue componenti incluse quelle di assistenza domiciliare agli anziani (la personal care), poche cose si potrebbero eccepire. Libera volontà di soggetti ai quali non sono precluse scelte alternative e che sono pienamente responsabilizzati nei loro atti: il “bamboccione” nel rinunciare ad avviare per tempo la sua carriera lavorativa e a ricercare l’indipendenza economica; il nonno nell’accettare che la sua pensione possa partecipare al reddito disponibile di un nucleo familiare in cui capitale umano fresco “rimane sulle spese”. Scelgono la convivenza, si direbbe, perché evidentemente, oltre alle motivazioni che possono giungere da un sistema valoriale soggettivo sui cui è giusto che l’economia non esprima valutazioni assolute (dove vivere, con chi, in quali relazioni?), considerano anche (qualcuno lo sostiene) le convenienze a scambiarsi sostegno reciproco in casa: la fonte di reddito del nonno in cambio delle cure e dei servizi di cui il nipote si può fare carico nella gestione domestica.
Ma quanto può essere vera questa visione volontaristica e roussoiana in Italia? Alcuni dati dimostrano in maniera inequivocabile che di altro tipo di (sotto)equilibrio di deve parlare.

Che cosa c’è dietro le scelte dei “bamboccioni”?
Nel 2006 (fonte “Employment in Europe”), il tasso di occupazione nella fascia di età 25-29 è stato del 65%, ben 15 p.p. al di sotto della media UE-15, mentre il tasso di occupazione generale del 58,4%, 7,6 p.p. al di sotto della media UE-15 e 11,6 al di sotto del target stabilito per il 2010 dai Consigli Europei di Lisbona e Stoccolma. Dalla scomposizione della spesa welfare su dati Eurostat emerge la scarsità delle risorse dedicate ai sussidi di disoccupazione (tra l’altro, prevalentemente di natura passiva; la voce unemployment nel database[1]): mezzo punto percentuale di Pil, contro (per portare alcuni esempi) i 3,5 p.p. del Belgio, i 2,5 della Danimarca, i 2,1 della Germania, gli 1,3 dell’Irlanda, gli 1,2 della Grecia, i 2,5 della Spagna, i 2,2 della Francia, l’1.9 della Svezia, lo 0,7 del Regno Unito. La stessa indicazione si trae dal confronto delle risorse dedicate a tutto il complesso delle politiche per il lavoro (dagli incentivi alle assunzioni per le imprese, alla riqualificazione professionale, ai supporti agli start-up, etc.)[2]. E una identica indicazione proviene anche dal confronto del sostegno al mantenimento della casa (altrettanto importante per permettere ai giovani di rendersi autonomi dal nucleo di origine): lo zero assoluto italiano si confronta con lo 0,1 del Belgio, lo 0,7 della Danimarca, lo 0,6 della Germania, lo 0,5 dell’Irlanda, lo 0,5 della Grecia, lo 0,2 della Spagna, lo 0,8 della Francia, lo 0,6 della Svezia e l’1,5 del Regno Unito. Si potrebbe continuare con la voce di sostegno alle famiglie e all’infanzia, oppure con quella che Eurostat classifica come di contrasto dell’esclusione, che raggruppa interventi, anche diversamente articolati da Paese a Paese, per l’inserimento / il reinserimento dei cittadini in posizione attiva nelle relazioni socio-economiche; anche per quest’ultima l’Italia spicca con uno zero assoluto, contro valori mediamente pari a mezzo punto percentuale di Pil nei Partner.

Che cosa c’è dietro la (possibile) condivisione delle pensioni?
Ma se i dati dimostrano che per il “bamboccione” la scelta di una vita simbiotica sotto il tetto natìo in compagnia del nonno potrebbe essere ben lungi da libera e volontaria, indicazioni di altrettanto rilievo emergono se ci si domanda che cosa avviene dal lato del nonno.
Se si incrociano dati Eurostat e dati Ecofin, si scoprono due cose.

1)       In Italia, nonostante la vita attesa a 65 anni sia tra le più elevate (la seconda dopo la Francia per le donne, la terza dopo la Svezia e la Francia per gli uomini), l’età media di uscita dal mercato del lavoro è (2006) la più bassa in UE-15 dopo quella della Francia: 60,2 anni contro i 60,6 del Belgio (2005), 61,9 della Danimarca, 61,9 della Germania, 64,1 dell’Irlanda, 61,1 della Grecia, 62,0 della Spagna, 62,1 dell’Olanda, 61,0 dell’Austria, 63,1 del Portogallo (2005), 62,4 della Finlandia, 63,9 della Svezia, 63,2 del Regno Unito. Inoltre, l’incidenza della spesa per pensioni (IVS e pensioni sociali[3]) sul Pil è la più elevata in EU-15 (14,2% nel 2004 su dati Ecofin, 14,0 nel 2007 su dati della Relazione sulla Situazione Economica del Paese, ultima pubblicazione) e, a normativa invariata, è proiettata assestarsi a (poco più di) questo livello nel medio-lungo periodo, di modo che anche nel 2050 oltre il oltre il 50% della spesa sociale pubblica rimarrà assorbita dalle pensioni, come già oggi avviene (nella media UE-15 il dato è inferiore al 43%).
2)       I dati sui bilanci delle famiglie di Banca d’Italia confermano questo sovrappeso delle pensioni: al 2006, circa 11 milioni di famiglie hanno un pensionato al proprio interno, corrispondenti a oltre la metà del totale dei nuclei familiari; inoltre, il 48,5% del reddito dei nuclei familiari in cui è presente almeno un pensionato deriva da pensioni.Senza entrare nei dettagli tecnici della normativa pensionistica, l’uscita anticipata dal mercato del lavoro (rispetto ai Partner) e il peso elevato che le pensioni hanno e manterranno nella spesa sociale sono da ricondursi alle scelte di policy, e in particolare: la troppo lunga transizione verso le regole di calcolo contributive a capitalizzazione nozionali, per giunta oggi anche rimessa in discussione dal cosiddetto Protocollo Welfare siglato a Luglio scorso tra Governo e Sindacati; la mancata diversificazione multipilastro, che obbliga il sistema pubblico a farsi carico del finanziamento dell’intero importo della pensione, attraverso il metodo della ripartizione su tutti gli attivi (tra l’altro foriero di distorsioni depressive sul sistema economico, quando utilizzato su scala eccessiva e di fronte ad una popolazione in rapido invecchiamento).
Ma per questa scelta, che convoglia tante risorse pubbliche sulle pensioni e tende a mantenere per le stesse una funzione redistributiva, altri strumenti di welfare non possono essere attivati, anche quando più efficienti nel raggiungere le persone bisognose e più efficaci nel risolvere i loro problemi. L’esempio più forte arriva dalla voce di spesa che, per sua natura, svolge la funzione redistributiva più importante, sia per i bisogni che tenta di soddisfare che per la caratteristica in-kind, di prestazione di beni e servizi: quella sanitaria. In Italia, la spesa sanitaria pubblica è inferiore, in termini di Pil, a quella dei Partner Europei: dai dati Ocse del 2005, il 6,6 italiano (spesa a carico del SSN) si confronta con l’8,1 della Francia, l’8,8 della Germania, il 7,2 del Regno Unito, l’8,6 della Svezia (media Ocse 6,8). Ma quel che incide di più sul discorso “bamboccioni-nonni” è che la componente più direttamente rivolta agli anziani, l’assistenza formale ed istituzionalizzata per long-term care (da parte di professionisti, assistiti da strutture e strumenti adeguati), è la più bassa tra i Partner: uno 0,6%, contro l’1,1 della Francia, l’1,0 della Germania, l’1,1 del Regno Unito, il 3,3 della Svezia (media Ocse 1,1,)[4].
Se si porta in primo piano il trade-off tra le voci di spesa nel vincolo di bilancio pubblico, allora comincia a diventar dubbio anche l’assunto che per i nonni possa sempre essere conveniente “scambiare” un welfare diversificato e capace di redistribuzione selettiva con pensioni mediamente più generose. Per qualcuno lo potrà anche essere (pensione generosa e nessuna condizione specifica di bisogno sua o dei familiari a carico), ma sicuramente non per tutti.

Riforma del lavoro e riforma delle pensioni:tasselli imprescindibili per superare il welfare “curtense” e consolatorio
Lungi dal rappresentare una manifestazione di coesione familiare positiva, il sostegno che ”bamboccioni” e nonni possono scambiarsi dentro le mura domestiche ha l’aspetto di una chiusura all’interno della famiglia, in mancanza di soluzioni migliori che la società non riesce ad offrire.
Il reddito da pensione è strumento inadatto alla redistribuzione: come si può garantire che le maggiori risorse, rispetto all’equità finanziario-attuariale, vadano proprio nei nuclei dove ce n’è bisogno? Di più, come si fa a garantire che queste stesse risorse, anche quando affluiscano a nuclei comprendenti un “bamboccione”, vengano utilizzati nella maniera migliore, non ai fini della sopravvivenza vegetativa, ma per valorizzare le risorse del giovane?
La verità è che dietro l’abbinamento nipote-nonno si nasconde un equilibrio socio-economico dissipativo di risorse, capacità e possibilità di benessere. Da un lato, il nipote non valorizza il suo capitale umano e, col passare degli anni, lo depaupera, vedendo diminuire sempre più le sue possibilità di trovare una occupazione; nel frattempo, non contribuisce né alla crescita dell’economia, né alla costituzione di una propria pensione (pubblica e privata), né al finanziamento di moderni istituti redistributivi del welfare system. Dall’altro, il nonno non ha disposizione quella rete di prestazioni di assistenza domiciliare e di lungodegenza, che il nipote può non volere e non sapere fornire in prima persona, e che in altri Paesi si è sviluppata su basi professionali ed istituzionali, guadagnando in qualità e sicurezza. Per non dire, che il flusso redistributivo implicito nelle pensioni ha, come già sottolineato, capacità selettiva bassa e non si può, di conseguenza, instaurare nessun serio collegamento funzionale tra portata redistributiva delle regole pensionistiche e welfare complessivo dei percettori e dei familiari dei percettori.
Se, in media, nonni che arrivano prematuramente a lasciare il lavoro concedono un parte della propria pensione a nipoti disoccupati che fanno loro compagnia nelle famiglie sopperendo a prestazioni di assistenza all’anziano che dovrebbero essere molto più sviluppate e accessibili a tutti, il calore umano (sempre ovviamente positivo) che può svilupparsi nei singoli contesti familiari non deve impedire di mettere a fuoco le ragioni di questa situazione, di cui pagano le conseguenze soprattutto le fasce di redito più basse, che nel contempo hanno pensioni magre da condividere e un welfare system povero di prestazioni e servizi.
Come si esce da questo equilibrio, in cui la società perde il governo della redistribuzione e della coesione, e la famiglia deve sopperire come può? La ricetta di policy è chiara e logica[5]:
–          velocizzare l’entrata a regime del criterio di calcolo contributivo nozionale (con aggiornamenti annuali dei coefficienti montante-rendita), che nel contempo incentiva il prolungamento volontario delle carriere e solleva le pensioni dalla impropria funzione di redistribuzione del reddito (che essa sia quella diretta ai percettori, o quella indiretta che dai percettori passa, in misura e forme non valutabili, ai familiari);
–          sviluppare il pilastro pensionistico privato complementare;
–          diversificare gli istituti del welfare system, rafforzando le politiche attive per il lavoro e le voci di spesa in grado di compiere redistribuzione efficiente ed efficace, come l’assistenza sanitaria, quella per la lungodegenza, quella per le disabilità, per la famiglia, i figli e la casa, o anche come quelle integrazioni per coloro che cadono al disotto di soglie di disponibilità reddituale che spesso sono confuse con le pensioni tout court[6];
–          cominciare ad affrontare il non lieve tema della riforma della contrattazione dei livelli retributivi e, più in generale, dei contratti nazionali di settore/comparto.
Al di là dell’approccio economico alle riforme, non si può sostenere che un nonno possa esser contento di vedere un nipote 30enne senza lavoro e con la prospettiva di rimanere senza reddito quando, prima o poi, verrà meno l’erogazione della sua pensione. Il valore della solidarietà intrafamiliare non deve diventare una scusante per il blocco delle riforme, da cui la funzione redistributiva su scala sociale uscirebbe rafforzata, con possibilità di diffusione del benessere che vanno ben al di là del soccorso, pur sempre da vedere con favore, che può svilupparsi nelle mura domestiche. E, per quello che si è detto, il ridisegno delle politiche attive del lavoro e il rafforzamento della cintura di assistenza (funzioni che può svolgere solo lo Stato) devono passare per una riforma di sistema che riguardi le pensioni.
La solidarietà intrafamiliare dovrebbe esser esattamente opposta: dai nipoti che lavorano e sono produttivi ai nonni o agli altri familiari bisognosi; non dalle pensioni derivanti da carriere di lavoro trascorse ai mancati redditi da lavoro dei giovani inattivi, ma dai redditi da lavoro correnti al finanziamento delle spese utili per sostenere il benessere degli anziani. E il lavoro dei giovani quest’ultima funzione è in grado di assolverlo per una duplice via: facendo crescere l’economia e le risorse comuni (gettito fiscale e contributivo) per finanziare il welfare system, e portando direttamente il loro reddito nel nucleo familiare. È questo il sentiero di sviluppo da ricercare al posto del (sotto)equilibrio di risorse scarse e frammentazione della società in famiglie che si sta affermando.
C’è un esempio che, pur nella sua natura semplificatrice, offre una immediata percezione della dimensione del fenomeno. Nel 2006 (fonte Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese per il 2006, tavola PS.8, pag 244 del volume II), le pensioni IVS a carico del bilancio pubblico sono state pari a circa 205,3 miliardi di Euro[7]. Nello stesso anno (stessa fonte), le erogazioni per indennità di disoccupazione sono ammontate a poso più di 4,8 miliardi di Euro (tavola TS.3), grossomodo il 2,3% del valore di pensioni IVS. Se si adotta l’ipotesi che il nonno pensionato riceva un assegno pensionistico di importo medio (spesa totale / numero di percettori) e che, quando convivente con un “bamboccione”, ne passi esattamente la metà al nipote, si può affermare che circa l’1,7% della spesa per pensioni/rendite, grossomodo 3,5 miliardi di Euro, sostiene le esigenze quotidiane dei “bamboccioni”.  Mediamente, tramite i redditi dei nonni, alla platea dei “bamboccioni” arrivano risorse pari a quasi il 73% di quanto il Paese spende in indennità di disoccupazione.
Se si riformassero le pensioni e si avviassero più forti politiche attive del lavoro, sarebbero fondamenta migliori e più solide per gli equilibri delle famiglie nell’equilibrio della società.


[1] Cfr. Area “Population and Social Condition”, sottoarea “Living conditions and welfare”, del database online su http://epp.eurostat.ec.europa.eu/.
[2]Cfr.Area “Population and Social Condition”, sottoarea “Labour market”, del database online su http://epp.eurostat.ec.europa.eu/.
[3] Il perimetro considerato da Ecofin nelle proiezioni di lungo periodo.
[4]Cfr. Ocse (2006),“Projecting OECD health care and long term care expenditures: what are the main drivers?” (http://www.cermlab.it/wpnew/internazionale.php?doc=3745498542).
[5] Sul punto, cfr. Pammolli-Salerno (2008), “Il sistema pensionistico: quale riforma?”, sta in “La riforma del welfare dieci anni dopo la ‘Commissione Onofri’”, a cura di Luciano Guerzoni (www.fondazionegorrieri.it).
[6]Una delle ragioni sovente invocata per bloccare/rallentare la riforma delle pensioni è proprio quella del sostegno ai redditi bassi nel corso della quiescenza, ignorando completamente che la riforma delle pensioni nel verso della neutralità distributiva permetterebbe di disporre di più risorse per finanziare interventi più mirati e più incisivi (in termini di flussi di risorse) verso le situazioni di indigenza. Sul punto, cfr. Pammolli-Salerno (2007) , “Il welfare system tra diritti economici soggettivi e diritti di cittadinanza”, su www.cermlab.it/wpnew.
[7]Volontariamente dall’importo si tengono fuori le pensioni di natura esplicitamente assistenziale: pensioni sociali, di guerra, agli invalidi civili, indennitarie, ai non udenti, ai non vedenti, oltre le rendite INAIL, nel complesso equivalenti a circa 22 miliardi di Euro.