L’OCSE diffonde la seconda edizione del rapporto “Pensions at a Glance[1] e il Governo italiano, voce solitaria nel panorama internazionale, ne contesta i risultati, che sarebbero distorti nelle ipotesi dello scenario base: un’età di ingresso nel mondo del lavoro di 20 anni (ritenuta troppo precoce) e carriere di 45 anni (troppo lunghe). A parte l’auspicio che il nostro mercato del lavoro riesca in futuro ad accogliere i giovani prima di quanto non accada attualmente, anche per permettere allungamenti delle carriere di pari passo con l’innalzamento della vita attesa, la controversia rischia di mandare in secondo piano le conclusioni del rapporto. Conclusioni che, invece, sono valide, rilevanti e in linea con le indicazioni del Gruppo di Lavoro sull’Invecchiamento della Popolazione (AWG) di ECOFIN [2].

Quattro sono i punti di sfondo alle analisi dell’OCSE che il Governo avrebbe il dovere di considerare come prioritari:

  1. se le riforme degli anni Novanta hanno permesso la stabilizzazione di lungo termine della spesa pensionistica sul PIL, ciò è avvenuto attraverso un ridimensionamento dei tassi di sostituzione, che sarà particolarmente evidente per carriere brevi e discontinue;
  2. il periodo di transizione troppo lungo per l’entrata a regime del criterio di calcolo contributivo ostacola una riforma complessiva del welfare system, necessaria anche per controbilanciare la caduta del tasso di sostituzione;
  3. il “rigore” finanziario del contributivo è ora messo in forse dal mancato aggiornamento dei coefficienti di trasformazione montante-rata;
  4. senza nuovi interventi, nel lungo periodo l’incidenza della spesa sul PIL rimarrà tale da assorbire risorse “sproporzionate” rispetto alla pluralità di finalità da perseguire, e da generare effetti distorsivi [3].

Questi punti non sono il frutto di assunzioni errate e, al contrario, segnano le difficoltà reali del nostro sistema di welfare. Essi richiedono un intervento organico, su più fronti: (a) la completa applicazione del criterio di calcolo contributivo; (b) la correzione delle pensioni retributive per tener conto dell’età di entrata in quiescenza; (c) la diversificazione multipilastro con lo sviluppo dei fondi pensione (l’Italia è penultima prima del solo Portogallo per popolazione coperta dal pilastro privato); (d) la diversificazione degli istituti del welfare system, con rafforzamento della spesa assistenziale universale-selettiva [4].

Del resto, come bene evidenziano Giuliano Amato e Mauro Marè in un recentissimo volume [5], i dati (proiezioni di spesa, andamenti demografici, proiezioni delle forze di lavoro, etc.) contenuti nell’ultimo rapporto di AWG-ECOFIN, conducono a conclusioni del tutto equivalenti a quelle dell’OCSE. L’Italia è il Paese che, tra i Partner UE-15, al 2050 farà registrare, da un lato, le più elevate riduzioni della popolazione giovanissima (0-14 anni; -25%) e di quella in età lavorativa (15-64; -24%) e, dall’altro, un consistente aumento della popolazione anziana (oltre i 65; +89%) [6]. Di conseguenza, l’old-age dependency ratio (persone con più di 65 anni in % delle persone nella fascia di età 15-64) raggiungerà in Italia il 62%, il secondo valore più alto in UE dopo la Spagna; mentre il tasso di dipendenza economica effettiva (persone con più di 65 anni non occupate in % delle persone occupate nella fascia di età 15-64) raggiungerà il 93%, un valore significativamente più elevato di quello UE pari al 70%. Se si guarda, poi, al benefit ratio (pensione pubblica in % del prodotto per lavoratore), l’Italia parte da uno dei valori più elevati nel 2004 (20%) per approdare ad uno dei valori più bassi nel 2050 (14%).

Questi dati ben rappresentano i rischi connessi al mantenimento di un sistema pensionistico monopilastro. Gli andamenti demografici prospettici hanno incrinato per sempre le fondamento di un modello incentrato sul ricorso quasi esclusivo al finanziamento a ripartizione (pay-as-you-go) e del patto intergenerazionale di cui esso è stato, per lungo tempo, strumento [7]. La difesa ”a oltranza” di un patto pensionistico non più attuale e non più sostenibile corrisponde, va detto con chiarezza, a mettere a rischio il patto più generale che lega tutti i cittadini attraverso il welfare system e il sistema della fiscalità. Il sovraccarico di pressione sulle risorse prodotte “da pochi” sarà disincentivo alla generazione ricchezza. E, senza ricchezza, non si fa redistribuzione.

La controversia con l’OCSE fa male al Paese. Si perde l’occasione di un “alleato” autorevole per affrontare lo snodo delle pensioni in termini strutturali, chiudendo una lunga traversata incompiuta e realizzando le condizioni affinché: (a) si abbiano pensioni pubbliche neutrali sul piano finanziario-attuariale e coerenti con gli incentivi individuali al lavoro e alla produttività; (b) si realizzi finalmente lo sviluppo dei fondi pensione e il bilanciamento tra finanziamento a ripartizione (pilastro pubblico) e finanziamento a capitalizzazione (pilastro privato); (c) si metta mano alla modernizzazione degli istituti assistenziali per perseguire finalità equitative in condizioni di efficienza/efficacia [8].

La riforma delle pensioni italiane va completata. Senza interventi, i problemi che l’OCSE segnala si aggraveranno. Riconoscere questo dato di fatto sarebbe un buon punto di partenza e un segno di responsabilità.

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Note
[1] Cfr. http://www.oecd.org/document/56/0,3343,en_2649_201185_38721720_1_1_1_1,00.html.
Per la scheda riassuntiva sull’Italia, cfr. http://www.oecd.org/dataoecd/15/20/38728696.pdf.
[2] Cfr.European Economy – Special Report n. 1 – 2006” (rapporto preparato dal Comitato di Politica Economica di ECOFIN e dalla Direzione ECFIN della Commissione Europea).[http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/european_economy/2006/eesp106en.pdf ].
Cfr. anche Report by the Economic Policy Committee and the European Commission on the impact of ageing populations on public spending [http://ec.europa.eu/economy_finance/epc/epc_publications_en.htm#2006].
[3] Nel rapporto si prende ad esempio il parametro dell’aliquota contributiva: 33 per cento contro il 20 della media dell’area OCSE. Per una discussione più ampia della necessità di diversificare la spesa di welfare (la contribuzione è solo una parte del finanzimento, che si affida anche alla fiscalità generale), cfr. Non si sottragga il TFR allo sviluppo del sistema pensionistico multipilastro , Nota CERM n. 1-07.
[4] Ricorre proprio quest’anno il decennale della Commissione “Onofri” che questa esigenza evidenziò.
[5] Amato-Marè (2007), “Il gioco delle pensioni: rien ne va plus?” ed. Il Mulino (in particolare, primo capitolo).
[6] Solo Francia, Spagna e Danimarca presentano un crescita più elevata della popolazione anziana.
[7] Vengono meno le condizioni in cui un sistema pay-as-you-go è ottimale per il trasferimento intergenerazionale delle risorse, il cosiddetto “teorema di Aaron”. Cfr. Aaron (1966), “The social security paradox”, Canadian Journal of Economics and Political Sciences, n. 32, pagg. 371-376. Quando il welfare system è “monopolizzato” dalle pensioni e carente negli altri istituti assicurativi e assistenziali, sono facilmente confutate tutte le tesi che relativizzano il teorema di Aaron, introducendo effetti endogeni della spesa pensionistica sulle grandezze economiche e sociali (a cominciare dal tasso di fertilità e dalla formazione di capitale umano). Tali effetti, di cui si condivide l’esistenza e l’importanza, sono da ricondurre al welfare system nel suo complesso e al suo organico e bilanciato sviluppo e non, invece, al solo capitolo delle pensioni pubbliche.
Si sottolinea come riconoscere la necessità della trasformazione multipilastro non equivalga affatto al venir meno della ragion d’essere del pilastro pensionistico pubblico. Cfr. Pammolli-Salerno (2007), “Pil, fondi pensione e TFR”, su www.lavoce.info.
[8] Per una proposta organica di riforma delle pensioni e del welfare, cfr. Pammolli-Salerno (2007), “Nuove pensioni per un nuovo welfare”, su www.cermlab.it/wpnew .