I recenti fatti di cronaca riguardanti il futuro di Telecom Italia e il suo ormai imminente cambio di proprietà hanno portato alla ribalta dell’opinione pubblica un tema centrale per lo sviluppo del settore, sia per il grado di competizione del mercato che per l’importanza strategica di un comparto vitale per l’intero sistema economico: la proprietà e la governance della rete di distribuzione locale di telefonia. In questa breve nota si intende fornire un quadro di sintesi per focalizzare nel modo più preciso possibile il problema in questione, talvolta dibattuto sui quotidiani con eccessiva generalità e mancanza di chiarezza.
1. La porzione di rete interessata
In primo luogo, è bene chiarire su quale parte della rete si deve appuntare l’attenzione. In estrema sintesi, si sta parlando di quella frazione della rete che – nonostante gli enormi progressi tecnologici che hanno interessato il settore in questi ultimi anni – rimane tutt’ora, e presumibilmente lo sarà ancora per molto tempo, il vero collo di bottiglia del comparto; e che, inoltre, non è duplicabile se non a costi così ingenti da rendere l’investimento stesso non economicamente sostenibile (soprattutto per gli enormi costi di scavo e posa in opera). Si tratta evidentemente della rete di distribuzione locale, ossia dell’infrastrutturazione che si snoda dalle centraline locali presenti in ogni città fino alle singole utenze, abitazioni o uffici (tecnicamente, il cosiddetto local loop) (si veda la figura 1). Il local loop rappresenta quindi il segmento della rete ancora in sostanziale monopolio naturale, mentre nella parte più a monte della rete, ossia la cosiddetta dorsale nazionale che collega tra loro le centraline locali di ogni città, si osserva oggi la presenza di più operatori alternativi che hanno realizzato ex novo o che comunque dispongono di una infrastruttura proprietaria di trasporto[i]. In questa porzione della rete, il “cuore pulsante” risiede nelle centraline, ossia nel complesso dei meccanismi hardware e dei sistemi software che gestiscono l’instradamento del segnale all’interno di tutta la rete telefonica nazionale e internazionale.
All’inizio dei processi di liberalizzazione del mercato, si riteneva possibile la duplicazione anche di quest’ultimo segmento della rete. Anzi, la duplicazione era auspicata dal regolatore nazionale e europeo che favorivano la crescita di una facilities based competition: ciascun singolo operatore doveva realizzare una propria rete indipendente da quella di Telecom Italia e ciò avrebbe permesso di generare una maggiore concorrenza all’interno del mercato in un’ottica dinamica. Ma ciò in realtà non è si è verificato, non solo per gli ingenti costi di investimento che avrebbe richiesto soprattutto per i nuovi entranti, ma anche a causa dell’evoluzione della tecnologia di trasmissione, e soprattutto per l’avvento delle tecnologie come l’ADSL e più di recente il VDSL: queste nuove tecnologie hanno permesso di utilizzare lo stesso cavo in rame per offrire, tramite specifiche tecniche di compressione del segnale, servizi a banda larga (fino ad un massimo di circa 20Mbits) ritenuti adeguati a soddisfare l’attuale livello di domanda. Per questo motivo, gli operatori alternativi hanno reputato economicamente più sostenibile (in un’ottica make or buy) affittare direttamente la rete preesistente di Telecom Italia che garantiva comunque la possibilità di erogare servizi a larga banda; allo stesso modo, da parte dell’impresa ex monopolista gli investimenti effettuati sono stati esclusivamente concentrati per adeguare la capacità di banda disponibile sulla tradizionale rete in rame.
Se queste scelte strategiche si giustificano in un mercato dove solo da poco iniziava ad essere presente una certa pressione competitiva a livello retail, la conseguenza è stata anche un forte rallentamento dei progetti di infrastrutturazione in fibra ottica di capacità maggiore, che però risultano di primaria importanza per lo sviluppo del settore nel prossimo futuro: mentre, infatti, l’attuale livello di domanda dei servizi (tradizionali e a larga banda) può essere soddisfatta con le esistenti reti in modalità xDSL, i nuovi servizi IP based sempre più sofisticati e bandwidth demanding – come le videotelefonate, le teleconferenze, i virtual private networks (VPN), il remote office, e soprattutto i servizi di IPTV e di televisione interattiva – richiederanno un’ampiezza di banda maggiore (si parla di reti di capacità da 2 a 5 volte superiori a quelle attuali) e con forte probabilità non ottenibile – in base all’odierno stato della tecnologia – con l’attuale rete capillare in rame.
[Figura 1 – La rete di distribuzione locale di Telecom Italia]
Da ciò se ne deduce che saranno necessari ingenti investimenti, anche a livello della rete di distribuzione locale, per creare nuove infrastrutture ad alta capacità, necessarie per dar seguito a quelle che nel gergo tecnico vengono chiamate next generation networks[ii] (NGN), ossia le reti del futuro a banda larghissima per le comunicazioni integrate di voce, dati, televisione e quant’altro.
Gli investimenti necessari per realizzare queste nuove reti sono particolarmente rilevanti: si parla di valori inclusi tra i 6,5 – dichiarati da Telecom Italia – e i 14 miliardi di euro – stimati da alcuni esperti[iii] – per il prossimo quinquennio. Sono indubbiamente cifre importanti, anche perché negli ultimi anni gli investimenti di Telecom Italia sono stati ridotti e concentrati solo nell’upgrading della rete esistente piuttosto che nella posa di nuove reti in fibra ottica, che rappresentano gli sviluppi futuri. Ad oggi, comunque, nonostante le tendenze prospettiche che si attendono anche sul piano tecnologico (come ad esempio l’avvento delle tecnologia a banda larga senza fili, come il WiMax), il local loop rappresenta un enduring bottleneck di importanza pivoltale per lo sviluppo del mercato.
2. Il modello di separazione allo studio
La presenza di questo invalicabile collo di bottiglia, gestito al momento dall’operatore dominante – Telecom Italia[iv] – ha prodotto inevitabili effetti anche per lo sviluppo del mercato della telefonia fissa. Nonostante, infatti, si possa pacificamente affermare che il livello di competizione raggiunto nelle telecoms italiane sia di gran lunga superiore a quanto si osserva in altri settori a rete, quali il settore energetico o quelli a valenza locale, grazie alla combinazione di processi di apertura del mercato e di regolazione pro competitiva, il mercato non ha ancora raggiunto quel livello di apertura che – almeno secondo le previsioni del regolatore europeo e nazionale – si presumeva si potesse realizzare sia nella telefonia fissa tradizionale, ma soprattutto nell’emergente e sempre più importante mercato dei servizi a banda larga[v].
Come fare allora per superare gli ostacoli che limitano la competizione nelle telecomunicazioni Italiane?
L’idea prevalente oggi, a seguito anche di quanto operato in Gran Bretagna dal regolatore inglese (Ofcom), è di imporre la cosiddetta “uguaglianza nell’accesso”[vi] alla rete di distribuzione locale. Tale soluzione, che comporta la possibilità per ogni operatore di accedere alla rete locale a condizioni trasparenti e non discriminatorie, può avvenire tramite la realizzazione di una separazione operativa tra servizi al dettaglio e all’ingrosso dell’operatore dominante.
Più in dettaglio, dopo anni in cui il regolatore inglese ha cercato invano di favorire una network competition anche nel fisso, stimolando la duplicazione delle infrastrutture da parte dei nuovi entranti, lo stesso Ofcom ha ripensato la struttura regolatoria del settore e – con una sorta di U turn – sta oggi puntando non più ad una facilities based competition quanto piuttosto ad una service competition, ossia ad una competizione sui servizi basata sull’uso condiviso e neutrale dell’infrastruttura essenziale: la rete di distribuzione locale.
Al riguardo, Ofcom ha imposto nel settembre 2005 lo scorporo della rete a British Telecom (BT), creando una divisione completamente separata a livello operativo (sebbene non a livello proprietario), denominata Openreach, il cui compito è di vendere l’accesso all’ingrosso sia alla divisione retail di BT, sia anche ai concorrenti. Openreach è operativa dal gennaio 2006, ha circa 30 mila dipendenti, fattura una cifra prossima ai 7,5 miliardi di Euro ed è dotata di 8 milioni di linee in banda larga e 5500 centraline, fornendo servizi a più di 30 milioni di clienti.
Tale forma di separazione è ben più forte di quella introdotta in Italia con la Delibera n. 152/02/Cons, di tipo contabile e organizzativo: il modello inglese si basa infatti sulla creazione di una business unit distinta e separata da BT, con un proprio amministratore delegato (scelto da BT) e un board di controllo (composto da 5 unità) con maggioranza di membri indipendenti, tra cui i componenti della stessa autorità di regolamentazione o da essa nominati. La divisione presenta i propri risultati finanziari e su questi si basa per la definizione di eventuali premi o remunerazioni del proprio management che dovrebbe così essere incentivato a massimizzare la vendita a chiunque dei propri servizi all’ingrosso e quindi senza favorire la casa madre[vii].
Openreach ha inoltre un brand distinto da quello di BT e strutture interne autonome; infine, sul management grava l’obbligo di lavorare in sedi diverse dal resto del gruppo così da minimizzare eventuali forme di “scambio” di informazioni sensibili. Il regolatore inglese ha quindi creato una vera e propria “muraglia cinese” tra la divisione al dettaglio di BT e la divisione che offre servizi all’ingrosso il cui ruolo è focale per lo sviluppo in senso competitivo del mercato.
La separazione dell’infrastruttura è un tema molto caldo e delicato. La letteratura economica, sia teorica che empirica, non ha al momento ancora dato una valutazione univoca sull’efficacia di una tale misura all’interno dei mercati delle telecomunicazioni, ma il tema è di indubbio interesse e importanza[viii]. I pro (maggiore concorrenza) e i contra (perdita di efficienza ed aumento dei costi di transazione) sono chiari: l’Autorità Antitrust italiana la invoca[ix], soprattutto quella proprietaria, come unico strumento per garantire una maggiore competitività del settore, mentre – come sopra osservato – l’AGCom ha imposto solamente una forma più debole di separazione contabile tra servizi all’ingrosso e al dettaglio.
In proposito, è interessante riportare le osservazioni di Faulhaber[x], il quale – dopo l’esperienza da chief economist presso l’autorità di regolazione americana (la Federal Communication Commission) – ha osservato che, nonostante il maggior costo (privato e sociale) di breve periodo generato da una separazione proprietaria dell’ex operatore dominante, la concorrenza si sia sviluppata in modo molto più marcato nei segmenti in cui le imprese competevano ad armi pari. Ciò ha generato notevoli benefici anche per i consumatori rispetto a quanto avviene nei casi in cui l’operatore storico compete sul mercato al dettaglio mantenendo il controllo delle infrastrutture di accesso.
Il modello di tipo inglese, che prevede la separazione operativa tra attività all’ingrosso e al dettaglio (ma esclude ogni vendita a terzi della business unit), potrebbe quindi essere l’esempio più adatto da seguire anche per il mercato italiano. Non si tratta a ben vedere di una società separata e di proprietà di terzi, bensì di una separazione meno traumatica che comporta la creazione di una società di proprietà dell’operatore dominate ma gestita in modo autonomo: in definitiva, una sorta di società di garanzia per tutti gli operatori di mercato.
La separazione proprietaria, che viene da più parti evocata, rappresenterebbe invece una soluzione ben più forte e non certo facile da attuare, sia in considerazione della struttura bidirezionale di una rete di telecomunicazioni lungo la quale infrastruttura e servizi sono fortemente connessi, sia anche per l’inevitabile resistenza che manifesterebbe Telecom Italia ad un’operazione potenzialmente in grado di generare rilevanti perdite di efficienza[xi]. Sembra parimenti potersi escludere ogni forma di rinazionalizzazione della rete di distribuzione, seguendo le linee di quanto si sta suggerendo nel settore energetico per le reti di trasporto del gas e dell’elettricità: in primo luogo, per il suo enorme valore, compreso tra i 12 e i 20 miliardi di euro, quasi un’intera manovra finanziaria; inoltre, per il fatto che Telecom Italia è ad oggi un operatore privato che verrebbe privato di un asset fondamentale, mentre gli operatori incombenti nei settori dell’energia risultano di fatto ancora controllati, in misura diversa, dal Ministero dell’Economia, e ciò rende l’operazione politicamente più sostenibile.
Ad ogni modo, viste le difficoltà che il modello italiano (definito dalla delibera n. 152/02) ha incontrato e in funzione della crescita esponenziale delle dispute tra gli operatori, il modello “a muraglia” inglese con la creazione di una divisione separata a livello wholesale gestita da un vertice quanto più possibile formato da personalità indipendenti, potrebbe rappresentare, a nostro giudizio, un buon punto di partenza per garantire un riassetto migliore del mercato. E questa sembra proprio essere la forma di separazione (funzionale e non organizzativa?) che la stessa AGCom sta cercando di implementare.
Purtroppo, è ancora presto per poter dare una valutazione sugli esiti del nuovo modello di regolazione inglese. Alcuni commentatori l’hanno definito un insuccesso poiché dal settembre 2005 ad oggi il numero delle linee passate in unbundling agli operatori alternativi di British Telecom è stato modesto e inferiore alle attese, dimenticando – forse in modo troppo sbrigativo – che in Gran Bretagna vi è una forte concorrenza intermodale proveniente dalle reti di televisione a pagamento, basata su cavi coassiali opportunamente modificati per sostenere il traffico tipicamente bidirezionale dei servizi voce. Insomma: meno linee passate, ma preesistenza di una consistente concorrenza da altri operatori già infrastrutturati.
Quello che è qui necessario ricordare è che il processo di ristrutturazione portato avanti da Ofcom è durato ben 17 mesi, con continui confronti con gli operatori – dominante e non – e a seguito di un lungo processo di analisi e discussione all’interno di una task force opportunamente creata. Insomma, è occorso molto tempo per definire la soluzione sulla quale oggi punta Ofcom per aprire e liberalizzare più compiutamente il mercato della telefonia fissa.
In Italia, l’AGCom sta portando avanti un percorso del tutto simile. Nel Giugno scorso (e quindi non solo di recente, quale reazione nazionalista alle voci di possibili acquisti da parte di operatori stranieri!), l’autorità di regolamentazione ha creato un gruppo di lavoro composto da esponenti della stessa autorità e da esponenti di Telecom Italia, includendo nel dibattito anche gli operatori alternativi. L’AGCom sta infatti per lanciare una consultazione pubblica proprio per ricevere indicazioni da tutti gli attori del mercato. Ma ci vorrà inevitabilmente del tempo per arrivare ad una soluzione ragionevole e opportunamente concordata, sebbene il presidente dell’AGCom abbia dichiarato di voler chiudere la partita entro l’anno in corso. Anche perché, diversamente dal caso inglese, i poteri di intervento al momento a disposizione di AGCom sono più limitati. La britannica Ofcom, grazie all’Enterprise Act del 2002, dispone infatti di poteri analoghi a quelli dell’autorità antitrust. Pertanto, in caso di disaccordo, Ofcom avrebbe comunque potuto imporre la separazione societaria, deferendo eventualmente l’operatore dominante di fronte all’Alta Corte Britannica[xii].
In Italia, al contrario, l’Autorità non dispone degli stessi poteri. L’attuale quadro normativo, riconducibile alle Direttive nn. 19–22/2002 del 7 Marzo 2002, recepite nell’ordinamento italiano con il Decreto Legislativo 1° Agosto 2003, n. 259 (il “Codice delle comunicazioni elettroniche”), non prevede infatti tra i rimedi che l’Autorità possa imporre la separazione (proprietaria o operativa) dell’operatore dominante qualora si riscontrino fallimenti strutturali dei mercati nel corso delle relative procedure di analisi. E ciò non può essere imposto, per rispetto del quadro regolamentare europeo, dal Governo in carica poiché, come ricordato nei giorni scorsi dallo stesso Commissario Europeo alla Concorrenza Reding, tale forma di intervento può essere decisa solo ed esclusivamente dall’Autorità di settore dopo aver operato le opportune verifiche di mercato ed in cooperazione con la Commissione europea.
Ciò che invece si può auspicare venga fatto dal Governo è dotare l’Authority di più estesi poteri in tema di separazione, anche per comminare sanzioni credibili in caso in cui la negoziazione venga volutamente dilungata nel tempo per evitarne l’effettiva applicazione. Insomma, più poteri all’autorità, senza però alcun intervento diretto da parte del Governo. Gli esiti sarebbero evidentemente deludenti qualora si intervenisse violando di fatto la normativa europea e nel caso in cui si entrasse in conflitto con la stessa Commissione anche per le interferenze (come sembra accadere in questi giorni in relazione agli assetti proprietari) con le fisiologiche dinamiche di mercato.
Il tema centrale rimane comunque, ad avviso di chi scrive, la governance dell’impresa ‘Openreach’ italiana: solo se questa sarà realmente gestita in modo autonomo, con un consiglio di amministrazione formato da persone indipendenti non solo da Telecom Italia, ma anche dai concorrenti e dall’autorità, potrà funzionare. Non sembra, al contrario, opportuno realizzare una struttura nuova, con i costi che comporterà, se i crismi di indipendenza (a onor del vero assai scarsi in Italia) stentassero a prendere corpo. Se così fosse, i costi – in termini di risorse e tempo impiegato – sarebbero molto maggiori dei benefici, a danno del consumatore finale e del futuro delle comunicazioni italiane.
3. Gli effetti sulla regolazione settoriale
Quali effetti dovrebbe avere l’introduzione di questa forma di separazione sull’attività di regolazione settoriale?
In assenza dell’enorme vantaggio competitivo nella gestione dell’ultimo miglio, il cui presidio sarebbe attribuito ad un organismo autonomo e indipendente, potrebbero progressivamente venir meno molti dei vincoli che oggi gravano sull’operatore dominante in termini di tariffe al dettaglio.
In Gran Bretagna, ad esempio, il regolatore inglese (Ofcom) ha deciso di togliere ogni vincolo di prezzo a livello retail per tutte le tipologie di utenza a partire dall’agosto 2006, anche a seguito della forte contrazione dei prezzi medi delle chiamate negli ultimi dieci anni (-50%) e dell’avvento dei nuovi servizi broadband, tra cui soprattutto il VoIP. E’ bene, tuttavia, evidenziare che in Gran Bretagna il mercato è stato liberalizzato a partire dal 1984, ben prima di quanto è avvenuto in Italia, e la concorrenza è più marcata di quella che si ha nel nostro Paese. Inoltre, la concorrenza che si è sviluppata oltremanica è di tipo intermodale, e quindi più forte, grazie alla presenza diffusa e capillare di reti via cavo alternative a quelle preesistenti di BT.
Nonostante ciò, è ragionevole prevedere un alleggerimento consistente dei vincoli di prezzo, come la stessa Telecom Italia chiede quale contropartita all’accettazione di tale forma di separazione operativa prevista dal modello ‘Openreach’ italiano. Pertanto, è dato auspicare la rimozione dei vincoli di cap sui prezzi finali e una maggiore libertà nell’introdurre nuove offerte in bundling dei servizi, ma solo dopo aver opportunamente rafforzato i poteri dell’AGCom e dell’Autorità antitrust in materia di erogazione di sanzioni, così da renderle un efficace strumento di deterrenza verso i comportamenti abusivi da parte dell’operatore storico.
In definitiva, la combinazione di una separazione operativa, unitamente ad un rafforzamento del potere sanzionatorio delle Authorities, può modificare il quadro della regolazione settoriale che si andrebbe a collocare sul segmento dell’accesso all’ingrosso alla piattaforma trasmissiva, eliminando (in modo progressivo) ogni forma di intervento a livello retail.
4. La questione aperta degli investimenti
La questione che però rimane sul tappeto è rappresentata dalle modalità attraverso le quali garantire che si effettuino gli investimenti necessari per la creazione della NGN italiana. Il problema si può porre nei termini seguenti: quali soggetti devono sostenere tali investimenti? Solo l’operatore dominante, Telecom Italia, o anche gli altri soggetti attivi nel mercato? Essendo investimenti ex novo, essi possono essere realizzati (in linea di principio) da qualunque operatore e la stessa unità ‘Openreach’ potrebbe essere incentivata ad investire nell’ultimo miglio.
Qualora fossero definiti adeguati incentivi all’investimento da parte del regolatore e tariffe che incorporassero un’adeguata remunerazione sulle somme investite, va da sé che la nuova unità operativa avrebbe interesse ad investire nella rete locale in modo da renderla più adatta ai nuovi servizi a banda larga del prossimo futuro.
Tale scenario appare prossimo a quello prospettato dal regolatore italiano, che sembra includere la NGN locale all’interno della società ‘Openreach’. In altri termini, l’italica ‘Openreach’, diversamente da quanto si sta osservando nel caso britannico, includerebbe non solo la rete tradizionale in rame, ma anche la parte di rete di nuova generazione a carattere locale.
Ma per tutte le implementazioni diverse da quelle effettuate in ambito prettamente locale, chi sarebbe chiamato ad investire? Ed ancora, le reti saranno comunque soggette a regolazione? Chiaramente, l’opzione che si intenderà seguire si ripercuoterà inevitabilmente sull’incentivo privato ad investire, ma tutto ciò resta ancora da definire, auspicando che gli approfondimenti del caso conducano verso esiti efficienti.
La valutazione dei costi e dei benefici per l’implementazione di una separazione proprietaria o solo operativa della rete di Telecom Italia è di primaria importanza. Lo spin off proprietario appare ad oggi complesso sia per motivazioni tecnologiche che economiche, ma potrebbe definitivamente eliminare quei problemi che hanno fino ad oggi bloccato il processo di apertura del mercato. Per converso, una soluzione come quella inglese, con la creazione di una business unit di proprietà dell’operatore dominante ma gestita in modo autonomo e con garanzie di neutralità e non discriminazione, potrebbe raggiungere lo stesso obiettivo richiedendo minori costi di transizione. Con questa prima nota sulle TLC, la Fondazione CERM intende seguire da vicino i cambiamenti di assetto che caratterizzano il mercato delle telecomunicazioni italiane, focalizzando l’attenzione sulla struttura del mercato, sul modello di separazione da implementare e sul problema degli investimenti infrastrutturali, nell’ottica di contribuire al dibattito economico-istituzionale in corso su uno dei settori regolati più importanti per il nostro Paese.
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NOTE
[i] Si rimanda all’Allegato I della Delibera n. 417/06/CONS (pagg. 194-198) per un’illustrazione dei diversi livelli di infrastrutturazione e dei loro piani recenti di sviluppo di alcuni operatori alternativi a Telecom Italia, come Fasrweb, Wind e Eutelia.
[ii] Si definiscono così le nuove reti di trasmissione in grado di trasportare voce e dati su un’unica piattaforma multiservizio basata su tecnologia IP. Al riguardo la definizione data dall’organismo tecnico dell’ITU-T [2006] circa le NGNs è la seguente: “A packet-based network able to provide telecommunication services and able to make use of multiple broadband, QoS-enabled technologies, and in which service-related functions are indipendent from underlying transport-related technologies. It enables unfettered access for users to networks and to competing service providers and/or service of their choice. It supports generalized mobility which will allow consistent and ubiquitous provision of services to users.”.
[iii] Si veda l’articolo di Fuggetta, “Ma a Telecom serve una strategia industriale”, del 13 aprile 2007, disponibile on-line all’indirizzo: http://www.lavoce.info.
[iv] Delle circa 25 milioni di linee presenti in Italia, Telecom Italia ne controlla oggi circa il 90% mentre la quota restante è controllata dagli altri operatori sia con infrastrutture proprietarie sia per l’utilizzo dell’accesso disaggregato della rete locale.
[v] Per un’analisi al riguardo si rimanda al capitolo di Cambini e Giannaccari, “Le telecomunicazioni nell’era della convergenza tra nuove regole e apertura del mercato” (2007), in corso di pubblicazione nel volume curato da F. Pammolli, C. Cambini e A. Giannaccari (2007), “Politiche di liberalizzazione e concorrenza in Italia”, Il Mulino Bologna.
[vi] “A real equality of access”, nelle parole di Ofcom, “Strategic review of telecommunications”, September (2005, 3).
[vii] I servizi all’ingrosso forniti secondo i principi di trasparenza e non discriminazione comprendono il servizio di unbundling (accesso disaggregato all’ultimo miglio), il wholesale line rental (ossia l’affitto del canone all’ingrosso) e i servizi di accesso wholesale a banda larga (bitstream e accesso condiviso).
[viii] In un recente rapporto dell’OCSE, “Report to the Council on experiences on the implementation of the recommendation concerning structural separation in regulated industries”, C(2006)65, Paris (2006), si evidenzia che per decidere di effettuare una separazione strutturale e proprietaria di una rete si debbano attentamente confrontare i costi certi, ascrivibili alla disintegrazione verticale dell’impresa e all’aumento dei costi di transazione, con i benefici prospettici legati ad un possibile dispiegamento di una maggiore pressione competitiva. In relazione alle telecoms si sottolinea che il Working Party on Telecommunications and Information Service Policies (TISP) è del parere che tali costi siano di gran lunga superiori ai benefici ipotetici.
[ix] Le prime esplicite dichiarazioni dell’Autorità antitrust italiana volte a introdurre una forma di separazione proprietaria nelle telecomunicazioni fisse si può ritrovare già nel 2001 nelle risultanze del caso A285 (Infostrada/Telecom Italia – tecnologia ADSL), dove la separazione della rete era vista come l’unica forma di intervento necessaria per prevenire gli abusi di Telecom Italia nel nascente e fondamentale mercato della banda larga; il tema è stato poi ripreso in AGCM, “Relazione annuale sull’attività svolta” (2005, 10).
[x] Faulhaber G.R. (2003), “Policy-induced Competition: the Telecommunications Experiments”, in “Information Economics and Policy”, 73, n. 15.
[xi] Le caratteristiche tecnologiche della rete telefonica la differenziano in modo assai marcato da quelle elettriche o dalle reti di trasporto del gas. In questi ultimi settori, per le caratteristiche stesse dei servizi (tipicamente omogenei e soprattutto scarsamente innovativi), la separazione proprietaria appare meno traumatica ed i costi della separazione più che compensati dai benefici legati alla più marcata competitività. Per reti dove i servizi sono fortemente innovativi e in continuo cambiamento, come le telecoms, e dove lo sviluppo degli stessi servizi è condizionata dalla tipologia di infrastruttura a banda larga, la separazione proprietaria potrebbe frenare la spinta innovativa di cui invece il settore necessita. Per maggiore dettagli si rimanda nuovamente allo studio dell’OCSE (2006), sup. cit..
[xii] Nonostante ciò, l’Ofcom ha sempre scartato l’ipotesi di separazione proprietaria che veniva avversata dall’impresa e che avrebbe creato un lungo contenzioso tale da rallentare il processo di separazione e dilazionato nel tempo l’entrata in funzione di Openreach.