prestazioni neutrali sul piano finanziario-attuariale, cumulabili con i redditi da lavoro, con pensionamento possibile dopo il compimento dei 57 anni
Si continua a dibattere della riforma delle pensioni senza considerare alcuni aspetti fondamentali sia per la scelta delle soluzioni tecnicamente migliori, sia per la ricerca di convergenze politiche tra i due estremi di chi non ritiene necessario alcun intervento e chi vede come rimedio irrinunciabile l’innalzamento tout court dei requisiti anagrafico-contributivi (i.e. l’impostazione della cosiddetta riforma “Maroni-Tremonti”).
Questo Editoriale propone in sintesi i principali contenuti di una bozza di disegno di legge delega per la riforma delle pensioni e del welfare system per la quale CERM contemporaneamente avvia una procedura aperta di consultazione (il documento sarà disponibile su www.cermlab.it/), con l’intento di condividere valutazioni e ricevere osservazioni e commenti:
1) revisione annuale ed automatica dei coefficienti “Dini”, resi individuali con la distinzione tra uomini e donne e con la considerazione dei singoli casi di reversibilità;
2) applicazione di correttivi finanziario-attuariali alle pensioni (e quote di pensione) retributive, con “abbattimenti e premi” agli assegni a seconda della differenza tra l’età effettiva di pensionamento e una predefinita età “canonica” (cfr. “Come superare lo ‘scalone’” su www.lavoce.info);
3) pensionamento possibile dopo il compimento di 57 anni di età, senza vincoli di anzianità contributiva;
perfetta cumulabilità di pensioni e redditi da lavoro;
4) omogenizzazione al 25% dell’aliquota di contribuzione al pilastro pensionistico pubblico per tutti i lavoratori dipendenti che smobilizzano il TFR, tutti i parasubordinati e gli autonomi;
5) applicazione della riforma sia al comparto del lavoro privato sia a quello pubblico;
6) piena separazione tra prestazioni pensionistiche, assicurative (extra pensioni) e assistenziali;
7) rafforzamento e razionalizzazione degli istituti di assicurazione sociale (contro la disoccupazione e gli infortuni sul lavoro) e creazione di un moderno sistema di redistribuzione delle risorse (la rete di assistenza sociale).
La copertura finanziaria va valutata con attenzione, ma una riforma ad ampio raggio come questa potrebbe rivelarsi più facilmente percorribile di singoli interventi scollegati. Si consideri che, se il 50% dei lavoratori dipendenti privati smobilizza il TFR, le minori entrate connesse all’omogenizzazione al 25% dell’aliquota contributiva sono dell’ordine dei 10 miliardi di Euro/anno che, al netto delle maggiori entrate contributive dai comparti del lavoro parasubordinato (circa 2 milioni di Euro/anno relativi ai soli “parasubordinati collaboratori”; vi si dovrebbe sommare il dato dei “parasubordinati professionisti”) e autonomo (circa 4 miliardi di Euro/anno), divengono dell’ordine di 5 miliardi di Euro/anno (computazioni in equilibrio statico su “Relazione Generale sulla Situazione Economica del Paese – 2006” e banca dati on-line INPS).
Corrispondentemente, se il 50% dei lavoratori dipendenti privati e autonomi che potessero andare in pensione la posticipassero volontariamente di un anno per l’effetto della revisione dei criteri di calcolo (cfr. infra), tra minori uscite (minori pensioni erogate) e maggiori entrate (contributi pensionistici ad aliquota 25%) il flusso netto positivo per l’Erario avrebbe un ordine di grandezza pari a 4,5 miliardi di Euro/anno (si assume la costanza dell’ultimo flusso di pensionamento; dati INPS). Tale flusso potrebbe essere anche maggiore se si considera che la contribuzione pensionistica non esaurisce le voci di contribuzione sociale e che l’imposizione personale sui redditi da lavoro è mediamente superiore a quella sui redditi da pensione. Potrebbe essere maggiore anche per altri due motivi direttamente collegati alla riforma delle pensioni: il prolungamento delle carriere potrebbe avvenire per più anni e, soprattutto, potrebbe riguardare (a differenza della riforma “Maroni-Tremonti”) anche il comparto del lavoro pubblico.
Nel complesso, considerando anche l’effetto di riduzione delle pensioni di coloro che preferiscono entrare in quiescenza accettando un assegno più basso, il vincolo di cassa del bilancio pubblico sembrerebbe avere dei margini di gestibilità all’interno del sistema fiscale e contributivo, cosicché si potrebbe (altro punto della bozza del disegno di legge delega) progettare di avviare lo smobilizzo del TFR nel comparto del pubblico impiego lentamente (con un sufficiente periodo di transizione) ma su basi finanziarie reali e non nozionali come sta avvenendo.
Teniamo a precisare che le quantificazioni appena esposte rappresentano soltanto ordini di grandezza di primo impatto che devono esser rese più accurate e, soprattutto, proiettate nel tempo, anche per tener conto degli effetti positivi che a livello macroeconomico ci si attende da una riforma come quella descritta (cfr. infra).
Dentro la “scatola nera” della stabilizzazione della spesa pensionistica sul PIL
È vero che le proiezioni di lungo termine dell’incremento del rapporto spesa pensionistica e PIL sono tra le più favorevoli tra Partner UE (+ 0,4 p.p. al 2050, contro una media UE-15 di + 2,3 p.p. e UE-12 di +2,6), ma questo risultato, ottenuto ipotizzando normativa invariata e un tasso di crescita del PIL esogeno, non risolve le ragioni di una riforma del welfare system [1]:
1) l’incremento è il secondo più contenuto (dopo il -1,2 p.p. dell’Austria) ma il livello di partenza è il più alto in assoluto (nel 2004, 14,2% del PIL, contro il 10,6 dell’UE-15 e l’11,5 dell’UE-12) [2];
2) il pagamento delle pensioni assorbe circa 1/3 del totale delle entrate fiscali e contributive (nel 2005, le prime pesavano per il 14%, le seconde per il 44% sul PIL) e questo, in prospettiva, è un forte limite all’ammodernamento della spesa pubblica e, in particolare, alla diversificazione della spesa per welfare verso istituti di redistribuzione collegati a specifici bisogni (soprattutto fornitura di beni e servizi) [3];
3) come diretta conseguenza, se è vero che la pressione fiscale e contributiva italiana non è superiore a quella media UE, lo è il cuneo contributivo lato impresa (i.e. la differenza tra il costo del lavoro e il reddito lordo del dipendente, per la maggior parte costituita da contributi pensionistici), con il 24,9% dell’Italia che si confronta con il 15,2 dell’area OECD, il 17,8 dell’UE-15 e il 18,8 dell’UE-19 [4];
4) anche dopo tutte le riforme pensionistiche dell’ultimo quindicennio, le proiezioni di lungo termine mostrano che nel 2050 oltre il 52% della spesa sociale rimarrà concentrata nella voce pensioni e, corrispondentemente, rimarranno carenti gli istituti contro la disoccupazione (0,3% del PIL contro lo 0,7 dell’UE-15 e dell’UE-12 [2]) e quelli a favore dell’inclusione sociale e della maternità/famiglia [5];
5) nei prossimi decenni, l’Italia sperimenterà uno dei più profondi processi di invecchiamento della popolazione tra Partner UE [2], e questa dinamica, da un lato, richiederà che più risorse pubbliche siano destinate all’assistenza sanitaria e ai casi di non autosufficienza [6] e, dall’altro, acutizzerà gli effetti negativi micro e macroeconomici (in primis sul tasso di crescita del PIL) di un sistema pensionistico totalmente affidato alla capitalizzazione nozionale (“Dini”) con finanziamento a ripartizione [7];
6) se l’età media di pensionamento rimane quella attuale immediatamente a ridosso del compimento dei requisiti minimi, a stabilizzazione sul PIL avvenuta (anche dopo il 2050), la spesa pensionistica sarà composta da tanti assegni pubblici con un tasso di sostituzione tra la prima pensione e l’ultima retribuzione mediamente basso, tra il 50 e il 60% per i dipendenti con carriera sufficientemente regolare [8], con livelli ancora più bassi per gli autonomi e per le carriere discontinue, o con periodi da parasubordinato, o con ingresso tardo nel mondo del lavoro (nei casi estremi di carriere frammentate, o ad inizio tardivo e poi svolte per la maggior parte come parasubordinato, il tasso di sostituzione può arrivare a non superare il 40%).
La stabilizzazione di lungo periodo testimonia degli importanti risultati raggiunti con le riforme dal 1993 in poi ma non esaurisce certo le necessità di intervento. Quali, pertanto, le scelte da compiere?
Agenda per una riforma
Qualunque intervento sulle pensioni dovrebbe tenere conto dei punti sopra sintetizzati. In particolare, si tratta di realizzare un obiettivo non facile, consentendo congiuntamente la realizzazione di tassi di sostituzione adeguati (superiori al 70%), la riduzione dell’incidenza della spesa pensionistica pubblica sul PIL, lo sviluppo dei pilastri privati e quindi il bilanciamento tra capitalizzazione nozionale e capitalizzazione reale e tra finanziamento a ripartizione e finanziamento tramite i frutti di investimenti effettuati ad hoc [7].
Qualunque intervento, inoltre, dovrebbe ricercare massima coerenza con le politiche del lavoro, per promuovere l’occupazione, soprattutto tra i giovani e le donne, e permettere la formazione di redditi e l’accumulazione di benefici pensionistici (nel pilastro pubblico come in quelli privati).
A poco serve innalzare l’età anagrafica per la quiescenza (come fa la riforma “Maroni-Tremonti” [9]), se a quell’età difficilmente può corrispondere una carriera lavorativa adeguata sia in lunghezza che in profilo retributivo. Per la stessa ragione, anche i vincoli di anzianità (numero di anni di contribuzione) hanno una valenza relativa, quando le condizioni del mercato lavoro, la frammentarietà contrattuale e i bassi livelli retributivi generano storie contributive molto diverse tra loro e, spesso, insufficienti.
Il prolungamento forzoso delle carriere non è in grado di rinnovare, oggi, gli equilibri del sistema pensionistico. Al contrario, riteniamo che i diversi requisiti richiamati sarebbero soddisfatti se si realizzassero le condizioni già elencate in apertura dell’Editoriale:
1) affermazione compiuta del principio di neutralità finanziario-attuariale delle regole di calcolo delle pensioni (cfr. infra);
2) omogenizzazione dell’aliquota contributiva al 25% (con effetto sul calcolo della pensione) per tutti i lavoratori dipendenti che smobilizzano il TFR verso i pilastri pensionistici privati [10], per tutti i parasubordinati (senza distinzioni interne alla categoria) e per gli autonomi (artigiani e commercianti) [11];
3) possibilità di pensionamento dopo il compimento del 57-esimo anno di età senza vincoli di anzianità [12].
Se i coefficienti “Dini” fossero distinti tra uomini e donne, resi individuali per quanto riguarda la casistica di reversibilità e aggiornati ogni anno automaticamente, e se le pensioni (e le quote di pensione) retributive di prossima erogazione fossero corrette per tener conto di età/anzianità all’entrata in quiescenza [13], le regole di calcolo diverrebbero “interfaccia” ideale tra il sistema pensionistico, il sistema di welfare e il mercato del lavoro:
1) incentivi endogeni (impliciti nella neutralità finanziario-attuariale) al prolungamento volontario delle carriere coesisterebbero naturalmente con il turnover giovani/anziani e con più elevati livelli di occupabilità e produttività [14];
2) la neutralità finanziario-attuariale in capo al singolo renderebbe possibile la piena cumulabilità di pensione e reddito da lavoro post-pensionamento (entrambi “diritti economici” soggettivi, quando frutto dell’applicazione individuale senza nessuna integrazione da parte della fiscalità generale), favorendo il prolungamento delle carriere in tarda età e l’adeguatezza dei redditi complessivi;
3) la piena cumulabilità, inoltre, renderebbe più convenienti soluzioni di pensionamento e successivo reimpiego con formule contrattuali flessibili più adatte alle esigenze della età avanzata, liberando posizioni full time regolari per i più giovani / meno anziani (il vero “spirito” della riforma “Biagi”);
4) l’affermazione della neutralità responsabilizzerebbe gli individui sui risultati economici delle loro scelte, permettendo di limitare i requisiti per il pensionamento al compimento del 57-esimo anno di età, senza vincoli di anzianità, con effetti benefici sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulle realizzazioni delle aspirazioni individuali [15];
5) all’omogenizzazione al 25% delle aliquote contributive (una riduzione per il lavoro dipendente, -8 p.p., e un aumento per quello parasubordinato e autonomo, +5 p.p.) corrisponderebbero due effetti importanti: si supererebbe la discriminazione tra lavoro dipendente e parasubordinato ai fini dell’accumulazione di benefici pensionistici [16], e il 25% diverrebbe il livello contributivo richiesto dalla natura “meritoria” della pensione pubblica e che, per questa ragione, non può non applicarsi a tutti i cittadini e a tutte le forme di lavoro;
6) le linee di riforma prospettate potrebbero applicarsi anche al lavoro dipendente pubblico (ad oggi escluso dalla riforma “Maroni-Tremonti” per problemi di controllo della produttività e per la necessità di rinnovamento / innalzamento qualitativo del capitale umano);
7) nel complesso, la riforma consentirebbe di ridurre il peso delle pensioni pubbliche sul PIL, da un lato costruendo la base per la diversificazione multipilastro [17] e, dall’altro, liberando risorse per gli istituti assicurativi (extra pensioni) e assistenziali.
Un “vantaggio comparato” dell’Italia e la responsabilità della politica
Il nostro Paese ha un “vantaggio comparato” rispetto ai Partner UE, che andrebbe valorizzato: pur con un lungo periodo di transizione, nel 1995 l’Italia ha già impostato il cambiamento “di cultura/visione” per rendere neutrali le regole pensionistiche e utilizzare istituti più efficienti/efficaci per le finalità redistributive-equitative.
È necessario, ora, portare a compimento quella scelta, che ricorre agli strumenti più adatti alle diverse funzioni del welfare system [18] e, nel contempo, è in grado di rafforzare la rete di sicurezza sociale.
L’agenda che proponiamo permette di allineare il funzionamento del sistema pensionistico (pubblico e privato) con gli incentivi individuali al lavoro, concorrendo a sostenere il ricambio delle forze di lavoro e i livelli di produttività. In questi termini, la riforma delle pensioni è parte del rinnovamento del welfare system e la sostenibilità finanziaria del nuovo assetto è ricercata promuovendo il miglior utilizzo dei fattori produttivi e la crescita. Due condizioni necessarie, queste, per la generazione, assieme alla ricchezza privata, della ricchezza pubblica che è alla base del finanziamento degli istituti di redistribuzione-assistenza e della coesione sociale.
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NOTE
[1] Cfr. Commissione Europea, “European Economy – Special Report n. 1-2006”. Contiene l’ultimo aggiornamento delle proiezioni di lungo termine del Gruppo di Lavoro sull’Invecchiamento della Popolazione del Comitato di Politica Economica di ECOFIN.
[2] Le riforme degli anni Novanta sono state fondamentali ed è grazie a loro che le tendenze di lungo periodo si sono stabilizzate. I risultati raggiunti, tuttavia, non devono impedire un’analisi responsabile degli interventi ancora necessari per rendere il nostro welfare system adeguato nelle prestazioni e sostenibile nel suo nuovo assetto.
[3] Cfr. “Programma di Stabilità dell’Italia, aggiornamento del Dicembre 2006”. Se si considerano anche le retribuzioni del lavoro dipendente pubblico, l’assorbimento delle entrate fiscali e contributive raggiunge il 57%.
[4] Cfr. OECD (2006), “Taxing wages”. Cfr. anche “Le riduzioni del cuneo non sono tutte uguali”, Nota CERM n. 13-06 su www.cermlab.it/wpnew. Un cuneo contributivo così pesante genera effettivi disincentivanti l’ampliamento delle forze di lavoro e l’assunzione di capitale umano qualificato. Non è un caso, infatti, che l’Italia mostri anche livelli medi delle retribuzioni lorde tra i più bassi in Europa e stia fronteggiando problemi occupazionali e di crescita che appaiono avere un grado di persistenza più forte che nei principali Partner UE. Per un sintetico confronto delle pressioni fiscali e contributive tra Partner UE, cfr. “Note Economiche – n. 1 di Settembre 2006” di Confindustria.
[5] L’Italia è uno dei pochi Paesi europei privi dell’istituto del reddito minimo di cittadinanza. Per informazioni sulle politiche di minimo vitale in Europa, cfr. “5th European Round Table on Poverty and Social Exclusion” (Tampere, 16-17 ottobre 2006) [http://www.stm.fi/Resource.phx/eng/subjt/inter/eu2006/round/round1.htx.i1153.pdf ]. Il database on-line di Eurostat offre una chiara immagine della disarticolazione della spesa sociale italiana [http://epp.eurostat.ec.europa.eu/ ], con sostegni alla famiglia e alla maternità poco superiori ad 1 punto percentuale di PIL, contro i 2 del Belgio, i 3,9 della Danimarca, i 3 della Germania, i 2,5 dell’Irlanda e della Francia, l’1,7 della Grecia.
[6] Prestazioni che integrano più di quelle pensionistiche finalità redistributive ed equitative.
[7] Nello spostamento di risorse nel tempo (la finalità dei sistemi pensionistici), capitalizzazione nozionale finanziata a ripartizione (pilastro pubblico) e capitalizzazione reale finanziata con i frutti degli investimenti (pilastri privati) hanno pregi che si combinano e difetti che si controbilanciano. Di fronte al rapido invecchiamento della popolazione, il solo pilastro pubblico genera, nel tentativo di offrire tassi di sostituzione adeguati, effetti distorsivi/disincentivanti sull’offerta e sulla domanda di lavoro e sulla produzione. Sul punto, cfr. “PIL, fondi pensione e TFR” su www.lavoce.info.
[8] Cfr. il recente lavoro di Giancarlo Morcaldo, “Pensioni: necessità di una riforma” su www.bancaditalia.it (pagg. 35-36), tenendo presente che i tassi di sostituzione riportati possono risultare anche più bassi per valori del tasso di crescita del PIL inferiori ai tassi di crescita delle retribuzioni, come ipotizzato nel Programma di Stabilità dell’Italia (aggiornamento di Dicembre 2006).
[9] Per una descrizione della riforma “Maroni-Tremonti”, cfr. Nota CERM n. 7-04 su www.cermlab.it/wpnew.
[10] Riduzione dei contributi pensionistici e smobilizzo del TFR andrebbero preferibilmente circoscritti ai lavoratori al di sotto di data anzianità contributiva, per favorire la transizione verso il nuovo equilibrio sia per le Finanze Pubbliche sia per i datori di lavoro. In particolare, sarebbe consigliabile escludere da questo intervento i lavoratori rientranti integralmente nel sistema di calcolo retributivo della pensione pubblica, per due ragioni: da un lato essi sono i meno interessati allo smobilizzo del TFR (al 2008, hanno più di 30 anni di anzianità e una posizione consolidata all’interno del pilastro pubblico); dall’altro, la riduzione della contribuzione non potrebbe avere effetto sull’importo della loro pensione (come invece per i rientranti nel calcolo contributivo e di transizione), e contrasterebbe con l’applicazione delle correzioni finanziario-attuariali che si suggeriscono (cfr. infra) in alternativa al prolungamento forzoso delle carriere. Infatti, se queste correzioni mirano a ripristinare ex-post un bilanciamento finanziario-attuariale tra storia contributiva e prestazioni erogande, ridurre i contributi complica la definizione della nuova “parità” (mette in atto una “partita di giro”). Cfr. “Come superare lo ‘scalone’” su www.lavoce.info.
[11] Con questa aliquota, dopo 40 anni di lavoro dipendente e con la prospettiva di 15 anni di vita post-pensionamento senza reversibilità, il tasso di sostituzione lordo del pilastro pubblico sarebbe dell’ordine del 70% (60% con reversibilità per 5 anni dell’80% dell’assegno). Diverrebbe dell’ordine del 50%, dopo una carriera di lavoro dipendente di 35 anni e una prospettiva di vita post-pensionamento di 20 anni senza reversibilità. I calcoli sono effettuati con coefficienti di trasformazione montante-rendita individuali e neutrali sul piano finanziario-attuariale (non sono quelli “Dini”), utilizzando il tasso di rendimento dell’1,5% reale che per legge adesso matura sulla parte residua del montante dopo l’inizio dell’erogazione. Cfr. “Canovaccio per la stesura di disegno di legge delega”, disponibile su www.cermlab.it/wpnew da lunedì 16/04/2007.
Non vi sarebbe motivo alcuno per non includere nel progetto riformista anche i liberi professionisti, salvo le difficoltà di natura politica derivanti dalla status giuridico riconosciuto alle Casse nel 1995.
[12] Con l’ulteriore vincolo di un’età massima (67) e un’anzianità massima (40) per il proseguimento del rapporto di lavoro dipendente/parasubordinato in corso (salvo poi ripristinarlo di comune accordo con il datore); in modo tale da non creare un potere di decisione sbilanciato dal lato del lavoratore quando, al raggiungimento di soglie elevate di età/anzianità, diviene importante, per l’ottimizzazione dei processi produttivi, poter rivedere la composizione del capitale umano, l’assegnazione delle responsabilità e anche i vari elementi contrattuali. È una previsione coerente anche con l’esigenza di favorire il ricambio generazionale delle forze di lavoro e che condivide la stessa logica alla base della flessibilità nelle scelte di pensionamento.
Il superamento del requisito di anzianità avrebbe anche un altro vantaggio. Il vincolo trovava la propria ratio all’interno del criterio di calcolo retributivo, quando era necessario richiedere una storia contributiva sufficientemente lunga, per evitare che si potesse avere accesso a benefici pensionistici eccessivamente sproporzionati (in valore attuale) rispetto ai contributi versati. Si giustificava, inoltre, con il fatto che i contratti di lavoro dipendente erano (negli anni ’60 e ’70) prevalentemente regolari a tempo indeterminato e duravamo tutta una vita (la mobilità era molto minore): in questo scenario, infatti, il numero di anni di contribuzione era direttamente e univocamente indicativo dell’ammontare dei contributi versati e poteva fungere da punto di riferimento per mantenere un certo rapporto finanziario-attuariale (anche se non la neutralità) tra storia contributiva e benefici maturati.
Queste condizioni non sussistono più. Il criterio di calcolo contributivo e quello retributivo con correzioni finanziario-attuariali degli assegni (cfr. infra) perseguono direttamente la connessione tra storia contributiva e benefici maturati, indipendentemente dall’anzianità contributiva e per qualunque anzianità contributiva. Inoltre, la maggiore mobilità lavorativa e la diffusione di rapporti a tempo determinato e parasubordinato fanno emergere un altro limite del requisito dell’anzianità: perché, a parità di retribuzione lorda percepita, un rapporto di lavoro di durata semestrale deve contare la metà dell’anzianità di un rapporto di durata annuale? A quale logica risponde questa differenza, se ci si muove all’interno di un criterio di calcolo che accumula tutti i contributi ad un tasso nozionale e li restituisce trasformando il loro montante in rendita con coefficienti finanziario-attuariali?
In un sistema neutrale, il vincolo di anzianità diviene un “doppione” del requisito anagrafico; infatti:
– anche anzianità elevate (il raggiungimento dei 40 anni, per esempio) non sono garanzia di adeguatezza dell’importo della pensione e di raggiungimento di un sufficiente tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione; tutto dipende da come si è evoluto il profilo retributivo, soprattutto in età giovane;
– è dall’età anagrafica che dipende la vita media residua e quindi il coefficiente di conversione del montante in rendita; se è vero che anzianità elevate non possono che essere raggiunte ad età avanzate, è anche vero che proprio per questa ragione basterebbe porre un requisito minimo di età anagrafica per l’accesso al pensionamento (come nella nostra proposta).
Allora, più che attraverso un vincolo di anzianità, l’adeguatezza dei redditi per la quiescenza dovrebbe essere perseguita favorendo l’ingresso tempestivo nel mondo del lavoro, l’occupazione continua (anche attraverso contratti a tempo determinato e parasubordinato) sin da giovani, l’apprezzamento del capitale umano e la crescita delle retribuzioni, l’allungamento volontario delle carriere sia prima che dopo il primo pensionamento, la cumulabilità e la piena appropriabilità di tutti i redditi frutto del lavoro del singolo. Tutte condizioni che, come si è sinteticamente argomentato nello scritto, sono promosse dalla liberalizzazione della scelta di pensionamento al di sopra dei 57 anni di età e senza vincoli di anzianità, previa l’affermazione della perfetta neutralità finanziario-attuariale delle regole di calcolo delle pensioni: sia in via diretta, incentivando i prolungamenti volontari delle carriere senza bloccare il turnover generazionale; sia in via indiretta, perché il contenimento della spesa pensionistica pubblica è funzionale al rafforzamento di quegli istituti assicurativi e assistenziali che, tra l’altro, promuovono l’inserimento / il reinserimento nel mondo del lavoro (assicurazione contro la disoccupazione, servizi per il primo impiego, supporto alle famiglie e alla maternità per favorire, in particolare, la partecipazione femminile).
Cfr. Pammolli-Salerno (2004), “Regole pensionistiche e prolungamento dell’attività: analisi del Tir e effetti del cumulo lavoro-pensione“, Quaderno CERM n. 7-04; e “Regole pensionistiche e incentivi al prolungamento della vita lavorativa: analisi del caso italiano “, Quaderno CERM n. 6-04.
[13] Cfr. “Come evitare lo ‘scalone’” su www.lavoce.info.
[14] I prolungamenti forzosi “ingolfano” il mercato del lavoro lato domanda (complicano la gestione del personale e il rinnovo del capitale umano) e lato offerta (costringono a lavorare “controvoglia” con probabili effetti depressivi sulla produttività e bloccando posizioni in cui altri desidererebbero impegnarsi), con riflessi negativi sull’occupabilità di chi è alla ricerca di impiego, sulla produttività e sulle retribuzioni medie.
[15] L’aspetto di bene “meritorio” della pensione pubblica sarebbe soddisfatto dal raggiungimento di un’età anagrafica qualificante per l’accesso alle prestazioni, oltre che dall’aliquota “universale” del 25% applicata a tutti i redditi da lavoro.
[16] La convenienza dei contratti parasubodinati risiede / dovrebbe risiedere nelle possibilità organizzative e operative che essi dischiudono per l’impresa. Unitamente alla contrattazione delle retribuzioni lorde, questa dimensione è già sufficiente a soddisfare le esigenze di flessibilità e di contenimento dei costi. Se, invece, vi si aggiunge anche un diverso assoggettamento ai contributi pensionistici, non solo si indebolisce la finalità “meritoria” della partecipazione obbligatoria al sistema pubblico, ma la contrattazione lavoratore-datore diviene anche meno trasparente, perché, soprattutto nei giovani, è possibile che, all’interno delle voci di costo del lavoro, venga sottovalutata quella relativa ai contributi pensionistici e si osservi soltanto il netto in busta paga (un fenomeno di “miopia”).
[17] Nel comparto del lavoro dipendente (privato e pubblico), parte della riduzione dell’aliquota contributiva diverrebbe disponibile per la compensazione “tombale” degli oneri di smobilizzo del TFR e per la riduzione del cuneo lato datore di lavoro, secondo un disegno strutturale completo e organico che manca, invece, sia alle attuali compensazioni con annesso prestito bancario agevolato, sia alla riduzione del cuneo agendo sulla base imponibile dell’IRAP (soluzione tra l’altro recentemente contestata dalla Commissione Europea). Sul tema, cfr. “Per quanto tempo ancora parleremo di TFR” di Fabio Pammolli e Nicola C. Salerno su www.lavoce.info, e “Le riduzioni del cuneo non sono tutte uguali” su www.cermlab.it/wpnew .
Quanto all’integrazione del tasso di sostituzione che ci si può attendere dai pilastri privati, ipotizzando la devoluzione, da parte di un giovane, del solo accantonamento TFR lungo una carriera da dipendente regolare quarantennale e l’erogazione delle prestazioni solo in forma di rendita per 15 anni e senza alcuna reversibilità, essa arriva a superare i 25 punti percentuali. Diviene dell’ordine dei 20 p.p. quando la carriera è di 35 anni e l’erogazione avviene per 20. I calcoli sono effettuati considerando un tasso di rendimento nominale del programma di investimento privato (al netto dell’imposizione dell’11% sui rendimenti e degli oneri onnicomprensivi di gestione) del 5% annuo (cfr. Pammolli-Salerno “PIL, fondi pensione e TFR” su www.lavoce.info), e senza tener conto della fiscalità di favore nella fase di contribuzione e in quella di accesso ai benefici. Inoltre, i coefficienti di trasformazione del montante in rendita sono quelli che applicano la perfetta neutralità finanziario-attuariale quando sul capitale residuo continua a maturare lo stesso tasso di rendimento reale del periodo di accumulazione (3%). Per carriere da lavoro dipendente regolare più corte l’integrazione dei pilastri privati si riduce. Cfr. “Canovaccio per la stesura di disegno di legge delega”, disponibile su www.cermlab.it/wpnew da lunedì 16/04/2007.
I parasubordinati e gli autonomi non sono dotati di TFR ma:
– per i primi, la formula contrattuale non dovrebbe valere per periodi lunghi e, anzi, dovrebbe concentrarsi (a meno dei casi particolari di professionisti che prestano consulenza e che svolgono più attività) nella fase di ingresso nel mondo del lavoro (3-5 anni) e nella fase di disimpegno anche dopo il primo pensionamento (dopo i 57 anni); obiettivi di “buon funzionamento” del mercato del lavoro la cui raggiungibilità non è indipendente, per i motivi descritti, dalla riforma delle pensioni e del welfare system;
– sia per i primi che per i secondi, si deve sempre tener presente che il TFR non è un “di più” che i dipendenti regolari ottengono rispetto al loro trattamento economico, ma è una voce dello stesso trattamento, al pari dei contributi che parasubordinati e autonomi potrebbero individuare nei loro redditi lordi e scegliere di destinare ai pilastri privati;
– infine, sia i parasubodinati che gli autonomi vedrebbero rafforzata (nella logica dell’agenda proposta) la loro partecipazione al pilastro pubblico di base (l’aliquota di contribuzione sarebbe omogeneizzata al 25% per rendere effettiva erga omnes la caratteristica di bene “meritorio” della pensione pubblica) e, a partire da questa, potrebbero scegliere liberamente l’integrazione attraverso i pilastri privati fiscalmente agevolati.
[18] Cfr., a tale proposito, l’articolo a firma Casarico-Profeta su Il Sole24Ore del 3 Aprile 2007, “Non di solo fisco vivono le donne”.