La Finanziaria contiene misure sicuramente positive per realizzare il risanamento della finanza pubblica e il rispetto dei vincoli europei. Il disavanzo si riduce e con esso il debito, riportando il sentiero della finanza pubblica su una strada sostenibile.  Tuttavia vi sono due aspetti che meritano un’attenzione particolare: la decisione di rivedere aliquote e scaglioni dell’imposta sul reddito e soprattutto l’utilizzo del TFR.
Per quanto riguarda la prima, non vogliamo entrare nel merito e ci limitiamo solo a ribadire la preferibilità di misure stabili e durature di riduzione della spesa rispetto ad aumenti della pressione tributaria. Si, naturalmente, viene realizzata una redistribuzione tra classi di reddito che in sé può essere condivisibile. Va riconosciuto che misure di riduzione della spesa sono difficili da realizzare e hanno costi politici elevati ed effetti sul bilancio non immediati. Ma si sottovaluta anche il costo politico che inevitabilmente avrà l’aumento della pressione tributaria, sia dal governo centrale sia dagli enti locali; per non menzionare l’effetto negativo sugli incentivi e l’evasione. La questione di fondo resta: le difficoltà di bilancio si risolvono con il coraggio di realizzare misure di contenimento della spesa e non con l’uso della leva tributaria.
Per le liquidazioni la decisione è semplice: una parte del TFR – 50% del flusso annuo – non altrimenti destinato alle forme pensionistiche complementari verrà destinato a un fondo costituito presso l’INPS, che sarà utilizzato dallo Stato per investimenti e progetti infrastrutturali. A prima vista, la misura potrebbe sembrare non avere particolari implicazioni. Il TFR, anziché essere parcheggiato nelle casse delle imprese, sarà girato all’INPS e utilizzato dallo Stato per progetti infrastrutturali, per gli investimenti e lo sviluppo. Per i lavoratori la scelta potrebbe apparire senza particolari effetti, dato che l’INPS remunererà la quota di TFR ricevuto secondo il rendimento adesso offerto al TFR depositato presso le imprese (1,5 + 75% del tasso di inflazione). E allora? Allora vi sono diversi aspetti che meritano invece una particolare attenzione, perché alle zone di luce si affiancano molte ombre.
In primo luogo, questa misura trasforma in parte l’adesione alla previdenza complementare da volontaria in obbligatoria. Infatti, se non si aderisce alle forme pensionistiche integrative – e al netto della parte del silenzio assenso che ci si aspetta non di grande entità – una parte consistente del TFR viene forzosamente trasferito all’INPS; l’altra metà resterà invece presso le imprese, come nella situazione attuale. Data la spiccata preferenza dei lavoratori di mantenere il TFR in azienda[1], la misura riduce la capienza del deposito in azienda e quindi ne può incentivare un uso alternativo. Perciò, la misura modifica in modo rilevante l’approccio finora seguito nella previdenza complementare, ovvero la scelta della volontarietà dell’adesione rispetto all’obbligatorietà; essa riduce di fatto i gradi di libertà del lavoratore.
La teoria economica e l’esperienza storica evidenziano per varie ragioni – libertà di scelta, preferenze individuali, etc. – la preferibilità della scelta volontaria rispetto all’adesione obbligatoria. Il silenzio-assenso era un buon compresso, anche se forse uno strumento troppo morbido, per sollecitare l’adesione dei lavoratori. È percezione diffusa, infatti, che il tacito conferimento possa rivelarsi insufficiente per far decollare il pilastro complementare. I lavoratori potrebbero preferire di lasciare il TFR in azienda a causa delle pressioni dei datori di lavoro, dell’assenza di informazioni, della sfiducia per strumenti finanziari, della preferenza per la liquidità garantita dal TFR in azienda, per consuetudine o pregiudizio.
La storia della previdenza complementare nel nostro Paese e le indagini campionarie sulle intenzioni dei lavoratori hanno evidenziato finora una bassa propensione all’adesione alla previdenza complementare dei lavoratori. Quindi, si potrebbe sostenere che questa misura rappresenti una spinta decisiva all’adesione, un elemento cruciale per lo sblocco della previdenza complementare. Tuttavia, ciò potrebbe avvenire con una riduzione delle libertà dei lavoratori, l’introduzione forzata di rischi per i lavoratori e di costi per il bilancio pubblico.
V’è in teoria un test molto semplice per capire se la misura sia gradita ai lavoratori e se esista davvero un’indifferenza al riguardo. La scelta di depositare il TFR maturando presso l’INPS, oppure di lasciarlo presso le imprese, potrebbe essere resa volontaria. I risultati potrebbero offrire un’indicazione immediata delle percezioni del rischio politico ed economico che i lavoratori attribuiscono ai due impieghi – la nostra convinzione è che esso sia molto diverso – e del grado di forzatura sulle scelte individuali che lo Stato mette in atto.
In secondo luogo, v’è la questione dei rendimenti. Se il rendimento offerto al TFR parcheggiato presso l’INPS deriverà dagli investimenti infrastrutturali, allora si pone una questione di convenienza economica di impieghi alternativi e di rischio. Gli investimenti in infrastrutture sono in grado di generare un rendimento identico a quello che è necessario corrispondere sul TFR preso a prestito?  Sorge immediata una questione di armonizzazione dei rendimenti sui diversi debiti dello Stato ad identica scadenza.
Se invece lo Stato garantirà un rendimento in linea con quello che matura ex-lege sul TFR depositato presso le imprese, allora dalla eventuale differenza potranno derivare aggravi del deficit pubblico: sarebbe una vera e propria eterogenesi dei fini. Appare singolare che si consideri questa misura come una sicura fonte di maggiori entrate, quando essa di fatto corrisponde all’accensione di un debito. Questione delicata e fondamentale sarà perciò quella di vedere se la misura riceverà il disco verde di Eurostat, come giustamente si prevede nell’articolato.
In terzo luogo, a questo aspetto se ne aggiungono altri che possono apparire secondarie, ma che invece sollevano questioni delicate. Si introducono infatti complessità amministrative e tecniche nella gestione del TFR. Ad esempio, come verrà liquidato in futuro? Come verranno conciliate e liquidate le due posizioni del lavoratore, quella presso il datore di lavoro e quella presso l’INPS? Se ad effettuare la liquidazione delle somme fosse il datore di lavoro, si possono creare forzature sul cash flow se le compensazioni tra datori e INPS non sono perfette sul piano temporale.
In quarto luogo, larga parte del TFR si trova presso imprese di piccola dimensione – circa l’80 del TFR è in aziende con meno di 25-30 dipendenti. Quindi, la misura in questione potrebbe rappresentare un colpo ai bilanci di queste imprese. Tutti sappiamo che in passato, va detto con chiarezza, i datori di lavoro delle piccole imprese hanno esercitato moral suasion se non vere e proprie forme di ricatto nei confronti dei lavoratori che volevano usare il TFR al di fuori dell’impresa. La misura potrebbe avere perciò effetti positivi perché potrebbe rappresentare un’azione di stimolo all’adesione; ma, allo stesso tempo, devono essere considerati senza pregiudizi gli effetti economici e aziendali di questa misura su questo tipo di imprese.
La predisposizione di misure compensative sembra opportuna e in parte in grado di limitare gli effetti della devoluzione all’INPS; ma allora ci si deve chiedere quale possa essere l’effetto netto sul bilancio dello Stato. Tra l’altro, vi sarebbe un evidente beneficio per le banche alle quali le imprese di piccole dimensioni non potrebbero che essere costrette a rivolgersi. Anche se si riuscisse ad avere neutralità per il bilancio pubblico – e la cosa non sembra molto facile – vi sarebbe comunque uno spostamento decisionale sulle risorse, una sorta di “nazionalizzazione” di una parte di risparmio che imprime un carattere interventista all’azione.
In quinto luogo, aspetti delicati solleva la scelta di creare un deposito pubblico. Sì, si dirà che non è un fondo pubblico, è solo un parcheggio presso l’INPS, ma “l’appetito viene mangiando”. Trovata la strada, si può poi continuare e le tentazioni dei governi in periodi di finanze pubbliche non in equilibrio possono essere forti e irresistibili, se non, in alcuni casi, l’unica soluzione.
Per questo è bene che, per fugare ogni sospetto e mitigare le incoerenze temporali della politica economica, si resista alle tentazioni, quando possibile… È vero, la scelta non equivale al tanto temuto super fondo INPS, che possa sovrapporsi alla gestione del primo pilastro, se non addirittura agire con un fondo a capitalizzazione nel mercato dei capitali. Ma qui non sembra esserci molta differenza sul piano dei principi. Sì, naturalmente, gli investimenti verranno decisi non dall’INPS ma da qualche ministero competente. Ma questo solleva allora problemi di trasparenza e di governance non trascurabili. Chi deciderà quali investimenti effettuare? E dove? E per quale importo? E con quali criteri? Il Ministero dello Sviluppo? O quello delle Infrastrutture? Oppure il Ministero dell’Economia? Una cabina di regia? Chi la eleggerà? Con quale mandato e durata?
E che dire dei differenziali di rendimento: tra quello da riconoscere al TFR depositato e quello ottenuto dagli investimenti? Ma non solo: si assume che il rischio economico e politico del debitore impresa sia lo stesso del rischio del debitore Stato. Ma la soluzione scelta, va detto con animo sereno, non aumenta le tentazioni del Governo, qualunque esso sia, di usare queste risorse per finalità di politica economica e sociale (sicuramente nobili e condivisibili ma che non sempre coincidono con quelle previdenziali)?
Nella misura, poi, si destinano 17 milioni di Euro per la promozione della previdenza complementare. Ma ciò determina una situazione paradossale per cui il Governo da un lato spinge per l’adesione alla previdenza integrativa e, dall’altro, spera in una congrua entità del fondo presso l’INPS: gli incentivi appaiono contrastanti. Inoltre, che succede al fondo se tutti i lavoratori decidono di aderire alla previdenza complementare? Il fondo resta senza risorse e si abbandonano tutti i progetti infrastrutturali?
In conclusione, pur se si possono rilevare aspetti positivi, la filosofia generale dell’intervento appare dirigista: su una parte del TFR le decisioni di investimento vengono devolute allo stato. Sul piano dell’impostazione di politica economica non è un passo in avanti.


[1] Questa preferenza è confermata da molte indagini campionarie e di opinioni recenti.