Anche dopo la stabilizzazione dell’incidenza sul PIL della spesa pensionistica dal 2050 (14,7 per cento nelle proiezioni contenute nell’ultimo Programma di Stabilità), l’agenda riformista deve affrontare un altro problema: quello dell’adeguatezza delle pensioni. L’obiettivo di policy, infatti, non può avere soltanto natura finanziaria (il controllo della spesa), ma deve riguardare anche i livelli di reddito disponibili per la quiescenza e la loro riduzione rispetto a quelli da lavoro.
Mano a mano che il criterio di calcolo contributivo entrerà a regime, il tasso di sostituzione (lordo) tra ultimo reddito da lavoro e pensione passerà dall’attuale valore mediamente superiore al 70 per cento ad uno inferiore al 60[1]. La caduta sarà più ampia (50-40 per cento) per i lavoratori con carriere discontinue, con fasi di lavoro flessibile a contribuzione ridotta, con ingresso ritardato nel mondo del lavoro per lenta uscita dall’università o per squilibri del mercato del lavoro.
Per questi individui si porrà un problema di povertà in quiescenza, cioè di adeguatezza della pensione agli standard di vita. Si badi che la risoluzione di questo problema è anche condizione affinché la riforma modernizzatrice del mercato del lavoro, lungo le direttive del Libro Bianco “Biagi”, possa avvenire senza pregiudicare l’equilibrio sociale e senza che alla flessibilità e modularità delle nuove forme contrattuali[2] corrispondano direttamente nuove sacche di indigenza.
Una soluzione al problema potrebbe venire dall’innalzamento delle aliquote contributive sull’occupazione dipendente flessibile[3]. Da più parti (sindacati ma anche osservatori economici e politici) si fa notare, infatti, come questi contratti siano convenienti per le imprese direttamente sul piano organizzativo, per la flessibilità (in più dimensioni) che consentono, e che quindi non sia necessario decontriburli[4]. Questa soluzione, tuttavia, pur accettabile su piano logico e di “giustizia” sociale, appare non compatibile con la congiuntura corrente di bassa crescita del PIL e bassa occupazione, in cui si stenta a incentivare nuove assunzioni e a stimolare nuovi investimenti e nuovi programmi di produzione[5].
Inoltre, come si è visto, il problema delle pensioni degli individui con carriere (o parti di carriere) svolte all’interno di contratti flessibili rappresenta l’acuto di un problema più ampio, che abbraccia tutti i lavoratori dipendenti rientranti nel calcolo contributivo.
Un caso a parte è dato dagli autonomi e dai liberi professionisti[6], per i quali la riduzione del tasso di sostituzione dipende dal più basso livello di contribuzioni sociali sull’occupazione “regolare”[7] (non sulle nuove forme contrattuali). Nel vecchio sistema retributivo l’effetto sulle pensioni non era percepito, perché quel generoso sistema di calcolo non chiedeva connessione finanziario-attuariale tra contributi versati e rendita fruibile in quiescenza. Con il passaggio al contributivo, questo effetto si esplica appieno, ma in questo caso è più logico chiedere che l’adeguatezza delle pensioni venga ricercata in primis tramite la revisione in rialzo delle aliquote contributive[8].
Se dunque:
– si esclude la via dell’innalzamento delle aliquote contributive per i lavori flessibili,
– e si riconduce il problema dell’adeguatezza delle pensioni per gli autonomi e per i liberi professionisti all’interno di una valutazione complessiva della distribuzione del reddito su tutti i cittadini pensionati, dopo che tutta l’occupazione “regolare” abbia concorso in misura sufficiente a costituire la sua pensione pubblica di base,
allora, il problema può trovare una soluzione in termini di sviluppo del pilastro privato e di disegno della sua fiscalità agevolata.
E’ questa l’indicazione di policy che qui si vuole trasmettere. Perché avvenga nel rispetto delle compatibilità del mercato e non venga “drenata” dall’interazione tra operatori (che non si può impedire), l’adeguatezza deve essere perseguita favorendo il risparmio e l’accumulazione, cioè la diversificazione multipilastro. All’interno di questo obiettivo generale, la tutela dei redditi bassi, che essi dipendano dalla permanenza in contratti flessibili o dalla congiuntura del mercato lavoro, può avvenire modellando le agevolazioni fiscali, in maniera tale da renderle più concentrate proprio in quelle fasce sociali per le quali ci si attende un problema di adeguatezza dei redditi in quiescenza.
Le modalità di cui studiare una applicazione sarebbero diverse, ma tutte di “direzione” contraria rispetto alla riforma della fiscalità attuata nel 2005 con il Testo Unico della Previdenza Complementare:
(1) il ripristino della detrazione dei contributi dall’IRE in luogo della loro deducibilità dal reddito imponibile IRE, che anche l’OCSE indica come strumento per minimizzare la tax-expenditure guadagnando in potere incentivante nei confronti di platee ampie;
(2) l’adozione di due (o più) scaglioni per l’aliquota di imposizione dei rendimenti annuali del capitale (nei conti individuali), di cui la prima potrebbe essere nulla, per poi divenire l’11 per cento attuale o anche superiore;
(3) il ripristino dell’imposizione IRE sulla rendita e dell’imposizione separata sul capitale in forma una tantum (al netto dei rendimenti che hanno già scontato l’imposizione)[9];
(4) la riduzione della rigidità nell’accesso al capitale una tantum (al pensionamento o anche prima in forma anticipata), a seconda della pensione maturata – in maturazione sia nel pilastro privato che in quello pubblico, in modo tale “compensare” il disegno progressivo delle agevolazioni permettendo vantaggi di tipo organizzativo alle fasce di reddito superiori;
(5) in una prima fase di sviluppo delle pensioni private, anche una differenziazione della fiscalità tra secondo (fondi pensione) e terzo (contratti assicurativi pensionistici) pilastro potrebbe essere accettata, per focalizzare le agevolazioni sullo strumento più standardizzato cui si rivolge la più ampia platea di lavoratori, lasciando che l’altro ricerchi l’attrattività facendo leva su maggiori contenuti di servizi ad personam[10].
Insomma, si dovrebbero valorizzare molto di più la diversificazione tra pilastri e il dosaggio delle agevolazioni fiscali come via per risolvere il problema dell’adeguatezza, anche e soprattutto per le carriere con porzioni all’interno di contratti flessibili. “Riscoprire” la possibilità di redistribuzione attraverso la fiscalità specifica dei pilastri privati è una soluzione che andrebbe studiata molto più a fondo:
(1) ristabilirebbe una coerenza di fondo tra i principi della fiscalità specifica e quelli della fiscalità generale (di cui la specifica è una componente), che adesso è stata completamente sovvertita dall’ultima riforma del 2005;
(2) legherebbe una parte della redistribuzione del sistema economico all’effettuazione di investimenti di lungo termine (una caratteristica positiva in più rispetto alla redistribuzione della fiscalità generale);
(3) renderebbe più amalgamabili il pilastro pubblico di base e quelli privati, perché l’esplicita apertura a una finalità equitativa di questi ultimi favorirebbe la convergenza di vedute politiche a proposito della trasformazione multipilastro;
(4) aiuterebbe a rendere più indipendenti le politiche del mercato del lavoro da quelle previdenziali, rendendo entrambe più realistiche ed efficaci nelle loro sfere[11].
A distanza di quasi un quindicennio dal Decreto Legislativo n. 124/1993, che “sulla carta” ha introdotto i pilastri privati organizzati di diritto italiano, è giunto il momento di avere più coraggio di cambiare[12].
[2] Che comunque si dovrebbero concentrare, in un “mondo perfetto”, nella fase di ingresso nel mondo del lavoro (al di sotto dei 30-32 anni, come strumento di acquisizione di esperienza e di mutua conoscenza tra lavoratore e datore di lavoro) e di uscita (il prolungamento della vita attiva dopo il pensionamento, tramite lavori flessibili più facilmente conciliabili con la vita privata).
[3] Escludendo l’ipotesi di una contribuzione figurativa, che tradirebbe la logica inaugurata con la riforma del 1995 e riaprirebbe i problemi di sostenibilità e di incentivazione viziata propri del retributivo. Anzi, si dovrebbero mano anno riassorbire tutti i cunei oggi presenti nel sistema tra contribuzione effettiva e contribuzione nozionale.
[4] L’aliquota contributiva è pari al 18,20 per cento per i non iscritti ad altra forma di previdenza obbligatoria e che abbiano un reddito annuo non superiore a Euro 39.297,00. Sul reddito eccedente tale limite si applica l’aliquota del 19,20 per cento. Il contributo è comprensivo dell’aliquota dello 0,50 per cento per finanziare l’indennità di maternità e l’assegno per il nucleo familiare. Tali lavoratori beneficiano anche dell’indennità di malattia limitatamente ai periodi di ricoveri ospedalieri. Il contributo è per 2/3 a carico del datore di lavoro e per 1/3 a carico del lavoratore.
[5] Come impedire, per esempio, che la più alta contribuzione del datore di lavoro non si scarichi in minori retribuzioni dirette, con ciò non solo annullando l’effetto della maggiore accumulazione di benefici pensionistici, ma anche creando più stringenti vincoli di liquidità nell’immediato?
[6] Alcune casse pensionistiche per i liberi professionisti si sono adeguate al criterio contributivo, altre hanno mantenuto quello retributivo. Per queste ultime dovrebbe essere reso stringente l’obbligo di assumere la piena responsabilità finanziaria della scelta, nell’immediato e nel lungo periodo, per evitare che si faccia appello al bilancio dell’INPS o a quello della Stato di fronte a squilibri tra diritti pensionistici maturati e risorse disponibili.
[7] Le aliquote contributive cambiano a seconda dei settori (in alcuni casi esistono dei minimali di versamento espressi in valore assoluto), ma sono mediamente più basse di oltre 10 punti percentuali rispetto alla contribuzione del lavoro dipendente regolare. Il termine “regolare” è proprio dell’occupazione dipendente e qui lo si estende agli autonomi e ai professionisti nell’accezione di occupazione piena (non rientrante nelle tipologie contrattuali introdotte dal Libro Bianco “Biagi”).
[8] Se non una equiparazione alle aliquote del lavoro dipendente regolare, almeno un loro innalzamento che permetta di generare pensioni di base adeguate, che escludano future pressioni di vario genere sulle finanze pubbliche nella forma di interventi a sostegno di redditi che si riveleranno bassi o medio-bassi non per circostanze che abbiano impedito una sufficiente contribuzione al pilastro pubblico (come la disoccupazione, l’interruzione di carriera o la permanenza all’interno di contratti flessibili), ma per una più bassa contribuzione ex-lege ereditata dal passato, da quando il pagamento delle pensioni all’interno del sistema retributivo implicava consistenti flussi redistributivi dal comparto del lavoro dipendente a quello del lavoro autonomo e delle professioni liberali (sia interni al sistema pensionistico che per il tramite della fiscalità generale che ha sempre concorso al pagamento annuale delle pensioni). Non deve più esser una scusante il fatto che aliquote contributive più alte e adeguate spingano all’evasione, sottraendo sia gettito contributivo che fiscale. Le regole del sistema pensionistico non devono essere utilizzate in contrasto dell’evasione; altri e più efficienti strumenti dovrebbero essere attivati (ivi inclusa la certezza e la congruità della pena).
[9] L’ultima riforma ha aumentato a dismisura la tax-expenditure nella fase di godimento dei benefici, imprimendole anche una caratteristica regressiva (sia la rendita che l’una tantum sono imposte ad aliquota proporzionale variante tra l’11 e il 9 per cento a seconda degli anni di partecipazione al programma previdenziale).
[10] Le società di assicurazione possono esser attive su entrambi gli strumenti e, quindi, la differenziazione del trattamento fiscale non potrebbe passare come una discriminazione nei loro confronti.
[11] Perseguire l’adeguatezza delle pensioni tramite aumenti delle aliquote contributive, indipendentemente dalla congiuntura dell’economia e del mercato del lavoro, o tramite tentativi di indurre aumenti ad hoc delle retribuzioni dirette (per permettere maggiori contribuzioni sia al pilastro pubblico che a quelli privati) costringe a: (a) mischiare tra loro politiche del lavoro e politiche previdenziali (se le retribuzioni sono basse esiste un problema di mercato del lavoro, che non necessariamente implica un problema nel disegno delle regole previdenziali); (b) fare della costruzione della pensione un questione troppo interna al rapporto tra lavoratore e datore di lavoro, con effetti finali anche molto diversi da quelli formalmente ricercati dalla normativa, alla luce degli aggiustamenti endogeni che non possono essere evitati (ricontrattazione del costo lordo del lavoro, effetti disincentivanti dovuti alla modifica di parametri che riguardano direttamente il rapporto di lavoro). Il ricorso anche alla redistribuzione tramite la fiscalità generale (di cui quella dei pilastri privati è parte) permetterebbe, invece, di non pesare totalmente sul singolo rapporto lavoratore-datore, e di distinguere meglio tra la fase di produzione del reddito (spettante alle politiche del lavoro e industriali) e quella del suo impiego in investimenti agevolati (le politiche previdenziali). Il punto sollevato riguarda espressamente i contratti flessibili introdotti dal Libro Bianco “Biagi”.
[12] In conclusione dell’OpEd, si desidera fare una precisazione su un aspetto che, sottinteso nel discorso, può, come un lettore ci ha fatto notare, indurre in equivoco. Il ragionamento sviluppato non può essere portato all’estremo: a sostenere, cioè, un opting-out dal sistema pubblico di ammontare equivalente alle contribuzioni di parte datoriale, o addirittura un opting-out radicale, con compensazioni da cercare nei flussi redistributivi interni alla fiscalità del pilastro privato. Il punto non è questo, perché il modello verso cui ci si dovrebbe muovere è quello multipilastro centrato sulla pensione pubblica, che ha caratteristiche reali positive sia dal punto di vista individuale (la diversificazione del portafoglio previdenziale) sia dal punto di vista macroeconomico (bilanciamento dei fattori all’interno della funzione di produzione, diversificazione delle fonti di finanziamento con contenimento degli effetti disincentivanti delle aliquote, etc.). Tant’è vero che, a proposito delle occupazioni “regolari che hanno un livello di contribuzione ingiustificatamente più basso di quello del lavoro dipendente, si è sostenuto chiaramente che il problema dell’adeguatezza va affrontato dapprima con un innalzamento delle stesse. La leva della redistribuzione attraverso la fiscalità della previdenza privata è uno strumento in più per perseguire il coinvolgimento più ampio della platea dei lavoratori e l’adeguatezza delle pensioni complessive (pubbliche e private), soprattutto in fasi storiche come quella attuale, in cui interventi diretti sulle aliquote contributive contrastano con la necessità di rilanciare occupazione e produzione. D’altro canto, non si sta sostenendo nulla di più che un risultato “classico” della finanza pubblica: la superiorità del ricorso a un ventaglio ottimizzato di strumenti, piuttosto che la concentrazione su pochi, con il rischio di enfatizzarne gli effetti negativi (è la ratio dell’esistenza di una pluralità di strumenti fiscali). A questa motivazione di fondo, si aggiungono le altre caratteristiche positive elencate nel testo: dal collegamento del flusso redistributivo ad un atto di investimento (un “premio per la responsabilità”), alla creazione di una base di più ampio consenso politico per la trasformazione multipilastro, al contenimento della tax-expenditure.